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Boris Mamlin

Così la guerra mi ha inseguito, dall’Ucraina a Tel Aviv

di Alexander Bayanov

Il giornalista e produttore cinematografico Boris Mamlin
Giornalista televisivo, sceneggiatore, produttore cinematografico, Boris è nato in Ucraina, ha vissuto in Russia, Paese da cui è scappato con l'inizio della guerra. Andato in Israele è coinvolto in un'altra guerra. La sua incredibile storia

Boris Mamlin è un giornalista televisivo, sceneggiatore, produttore cinematografico, direttore della compagnia cinematografica “Kartina mira” (Immagine del mondo). È padre di cinque figlie. Boris è nato nel 1971 in Ucraina, ha lasciato la Russia nel 2022 dopo l’aggressione all’Ucraina e ora vive in Israele dove un’altra guerra ha colpito la sua vita e quella della sua famiglia.

Prtiamo da quello che ti è successo il 24 febbraio 2022? E dalla tua storia, legata alla tua infanzia, alla tua terra.  Sei preoccupato anche perché oggi l’esercito russo ha lanciato decine di missili contro le città ucraine, ci sono state vittime e distruzione di edifici civili.

Sono nato in una città chiamata Dnepropetrovsk. Gli studenti universitari scherzavano su questo nome, dicevano che essa è la città di Pietro il Grande sul Dnepr. Anche se non è proprio così. Tutta la mia famiglia, sia per parte materna che paterna, è composta da ucraini ed ebrei vissuti in Ucraina, quindi all’inizio della mia vita parlavo indifferentemente ucraino e russo, e la mia storia vale probabilmente per la maggior parte dei sovietici: non è chiaro dove finisce in noi l’ucraino e dove inizia il sovietico o il russo.

Quando avevo sette anni, i miei genitori mi portarono nell’estremo oriente del Paese: andarono a costruire la linea ferroviaria Baikal-Amur (alternativa alla Transiberiana, una linea di trasporto che collega l’estremo oriente del Paese e la Siberia orientale). Era un grandioso progetto del governo sovietico della fine degli anni ’70, era utile dal punto di vista della carriera e si guadagnava molto bene. Era un nuovo mondo molto insolito: la taiga, i fiumi di montagna rapidi e ghiacciati, il gelo a -50 gradi in inverno, persone provenienti da tutto il paese, star del cinema e della musica a casa tua, e allo stesso tempo era nostalgia di casa, della famiglia da cui mi separavano ben sette fusi orari… Ogni estate tornavo nella mia terra natale, solo il viaggio di andata durava sette giorni su un treno che attraversava tutta la Russia, ogni estate vivevo in semplicità con i miei amici e la mia famiglia. In realtà il mio cuore è sempre rimasto lì, in Ucraina. Il momento più bello della mia infanzia è stato sempre il ritorno a casa, al cortile dove è avvenuto il primo incontro con la vita e dove ho mosso i primi passi.

Dalla Siberia orientale, dove mi sono diplomato, sono stato portato ancora più a Est, dove ho studiato per due anni alla Scuola Militare di Suvorov, una scuola maschile militare d’élite. I miei nonni erano ufficiali decorati con ordini e medaglie, e fin da bambino sognavo di diventare un militare. Ero terribilmente attratto da tutto ciò che era militare; qualsiasi pezzo di ferro, qualsiasi macchina verde mimetico o qualsiasi cosa simile a un’arma suscitava sempre in me un’incredibile ammirazione. Dopo essermi diplomato alla Scuola Militare di Suvorov, sono entrato all’accademia militare di Novosibirsk. Tuttavia, un anno prima della laurea, mi sono reso conto che la carriera militare non era la mia strada, perché il sistema è progettato in modo tale che o menti e te la cavi, oppure sei sempre colpevole. E quando guardo i resoconti sui successi dell’esercito russo in Ucraina constato che in 30 anni non è cambiato nulla, perché sono, di regola, falsi e non corrispondono alla realtà.

Ho iniziato a costruire la mia vita a Novosibirsk, mi sono sposato subito dopo aver lasciato la carriera militare, stavo benissimo, facevo ciò che amavo: facevo ciò che amavo: lavoravo in televisione, ho aperto una mia attività, realizzavo documentari e pubblicità. Sono stato in Antartide, al Polo Nord, in Africa e nelle due Americhe, gli affari portavano ottimi guadagni, il Paese cresceva e ne eravamo orgogliosi, i tempi non erano violenti, Dmitry Medvedev era il presidente, indossava un Apple Watch e aveva Instagram. Ma nel 2012, quando ci fu l’arrocco tra il presidente e il primo ministro (ciò che accadde a Mosca, la cosiddetta Rivoluzione Bianca, quando il presidente Medvedev rifiutò di candidarsi per un secondo mandato e cedette l’elezione all’allora primo ministro Putin). All’improvviso nel mio Paese mi sono sentito, in primo luogo, ingannato e, in secondo luogo, un estraneo, uno straniero. Sono tornato a casa e ho detto subito a mia moglie che mi sentivo come una persona di un altro paese, perché non capivo le persone intorno a me, come potevano restare tutti così tranquilli davanti a quello che stava accadendo. Non capivo come potessero comportarsi così gli uomini al governo. Non capivo più niente.

La crescita del business ci ha poi portato a Mosca. Abbiamo iniziato a lavorare in modo ancora più interessante, per sviluppare progetti ancora più interessanti e ambiziosi. Tutto andava a gonfie vele. All’inizio del febbraio 2022 abbiamo deciso di realizzare un nostro vecchio sogno e siamo andati in Perù. Siamo tornati da lì il 23 febbraio. Ricordo chiaramente l’aeroporto Schiphol di Amsterdam, che non si era ancora ripreso dal Covid ed era semichiuso: c’erano enormi corridoi vuoti e infiniti lungo i quali camminavamo aspettando il nostro volo. E c’erano anche un numero enorme di schermi, ad ogni gate, su questi schermi appaiono i numeri dei voli e tutte le informazioni necessarie. Poiché non c’erano voli hanno cominciato a trasmettere dalla televisione: cammini lungo questo corridoio infinito, vuoto, non una sola persona, come in un videogioco o in un sogno. E da tutti questi gates, su ciascuno di questi schermi viene trasmesso il fatidico incontro del Consiglio di sicurezza russo, in cui Vladimir Putin ha costretto ciascuno dei suoi collaboratori a rispondere alla domanda sul riconoscimento dell’indipendenza delle repubbliche di Lugansk e Donetsk, e in cui queste persone rispondevano con voci tremanti, rendendosi conto che proprio in quel momento il loro destino era segnato per il resto della loro vita [riunione del Consiglio di sicurezza russo, dove, alla vigilia dell’invasione dell’Ucraina, Putin ha interrogato i partecipanti sulla guerra ormai programmata]. E sotto questi monitor che trasmettevano queste immagini c’era scritto gate closed, gate closed, gate closed: uno spettacolo potente. Conservo ancora diverse fotografie di quel momento.

Siamo arrivati a casa la sera del 23 febbraio. Il 24 mattina mi sono svegliato, ho preso il telefono e ho visto i messaggi su quello che stava succedendo. È stata una sensazione… incredibile e spaventosa. Il primo pensiero che mi è venuto in mente è stato: “Adesso può succedere qualunque cosa”. Cioè, per me ora non c’è più nulla che non possa succedere, non posso più dire: questo non succederà mai, perché proprio quello che non poteva succedere è successo. Mai. Non sarebbe mai dovuto succedere, non poteva succedere. Era come se mi avessero stordito.  

Quella sera, la prima sera di guerra, io e le mie figlie più grandi siamo andati in piazza Pushkin a protestare. Naturalmente sono andato con loro, non potevo starmene tranquillo a casa quando il paese in cui sono nato, dove è sepolta mia madre, dove vivono i miei parenti, viene bombardato dal paese in cui vivo. Mi si è spezzato il cuore per i post dei miei parenti sui social network, che, isterici, ci maledicevano e allo stesso tempo ci sollecitavano a fare qualcosa per fermare immediatamente la guerra. Avevo bisogno di uscire in strada e vedere quante persone normali erano contrarie alla guerra. Sono uscito in questa bella serata moscovita senza niente in tasca, pronto all’idea di poter essere arrestato, di finire caricato su un cellulare e poi in prigione. Ho preso la metropolitana alla stazione Barrikadnaya e sono scesa in piazza Pushkin: speravo di vedere un milione di persone. Dopotutto, almeno la metà dei russi ha genitori, parenti, amici, colleghi, soci d’affari che vivono in Ucraina… Ma quando sono arrivato in piazza Pushkin, ho visto, beh, al massimo un migliaio di persone. Erano tutti ragazzini, sui 18-20 anni: capelli tinti di blu, piercing occhiali alla moda, attivisti di quelli che partecipano a qualunque manifestazione …

In quel momento ho definitivamente capito che niente mi lega alla gente di questo Paese, né lega loro a me. In quel momento si è verificato uno strappo dentro di me. Non sto parlando di opinioni, di cosa è chiaro o non lo è. In quel momento ho capito che volevo andarmene.

Così hai deciso di lasciare la Russia e siete andati in Israele. E adesso vivete lì…

In realtà ci stavamo pensando da molto tempo. Una delle nostre figlie, Serafima, è autistica, e in Russia non vedevamo grandi prospettive. Noi non ringiovaniamo, e volevo andare in israele, provare a vedere e capire se era possibile trovare dei servizi sociali accoglienti, una possibilità di vita per Serafima. Così ci siamo trasferiti a vivere lì. All’inizio è stato molto difficile. Per le figlie è stato difficile, per noi è stato difficile. Un Paese sconosciuto, una mentalità totalmente estranea, una lingua sconosciuta che non somiglia a nessun’altra lingua. Nostalgia di casa, la casa in cui hai riversato tanto amore e tanta fatica. I primi tempi chiudevo gli occhi e pensavo: ecco adesso apro gli occhi e mi ritrovo nel mio amato salotto a Mosca. Magari abbiamo fatto male a venire qui? Forse dobbiamo tornare indietro? Adesso questa tensione si sta un po’ allentando, soprattutto dopo le notizie che arrivano dalla Russia. Ho una moka Bialetti, sono un vero amante del caffè. Il 21 settembre, quando in Russia è stata annunciata la mobilitazione e uomini comuni, proprio come me e te, hanno cominciato a essere inviati in Ucraina, ho messo la moka sul fuoco, dimenticandomi di metterci l’acqua. Si è bruciata, ovviamente, ma continuo ad usarla come promemoria, come un vaccino contro la nostalgia dell’emigrante.

Sei arrivato in Israele e hai trovato la guerra anche lì. È entrata nella tua vita. Come hai affrontato questo momento?

Gli israeliani me lo chiedono di tanto in tanto, dicendo che ho lasciato una guerra per trovarmi in un’altra. E io rispondo: “Ragazzi, io per una guerra mi sono vergognato, ma per la seconda provo dolore e orgoglio”. Sì, perché non mi vergogno di questa guerra. Anche se è chiaro che è un peccato, perché il governo si è rivelato completamente impreparato a ciò che sta accadendo. E anche questa, ovviamente, è una grande delusione. Per me forse in misura minore, perché leggo… Nel libro dei Proverbi c’è una cosa … “Non confidate nei principi, nelle forze umane, confidate solo nel Creatore”. Ma molte persone in Israele, inclusa mia moglie, hanno vissuto uno shock e una grande delusione. Mia moglie l’ha formulata così: mi sentivo al sicuro qui, perché qui c’è il miglior servizio di intelligence, di controspionaggio, il migliore esercito, le forze speciali, la polizia, i migliori del mondo. Invece…
Ad essere sincero, non capisco su cosa si basasse questo suo sentimento, poiché sono una persona diffidente e in passato sono stato nel mondo militare, capisco che in ogni servizio ci sono persone, e sopra queste persone ci sono altre persone. Non si può fare affidamento su di loro, bisogna affidarsi all’Onnipotente, guardarsi sempre intorno e capire cosa può succedere. Lo tengo sempre in testa e non mi rilasso mai.

Come molti “sovietici”.

Sì, ma per qualche motivo alcuni “sovietici” hanno deciso che qui tutto andava bene, che si era al sicuro. E ora in molti dicono che non sanno come continuare a vivere, perché all’improvviso hanno scoperto che non ha funzionato, o non ha funzionato come si aspettavano. Letteralmente due o tre giorni prima dell’inizio di questa catastrofe, di questa tragedia, io e mia moglie stavamo viaggiando da Gerusalemme e discutevamo proprio del fatto che in Israele c’è molto di questo rilassamento mediterraneo, levantino, che è presente in tutto il Mediterraneo, ma che in Israele è addirittura più evidente. E dico a mia moglie, non capisco. Come se la cava l’esercito e come se la cava l’intelligence, sullo sfondo di tutto questo rilassamento? È incredibile come ciò possa accadere. Purtroppo la risposta è arrivata pochi giorni dopo. E ora, ovviamente, nella società israeliana sta avvenendo una rinascita molto potente, un ripensamento, con la questione di come continuare a vivere ora.

Quando sei arrivato in Israele, hai avuto uno straordinario incontro con i monaci di un monastero trappista, giusto? Ecco, raccontaci di questo incontro. Perché ne avevi bisogno?

In effetti, questa è una storia a più livelli. Quel posto, per gli standard israeliani, non è affatto vicino a dove viviamo. Viviamo a nord di Tel Aviv e questo posto è vicino a Gerusalemme, circa 70 chilometri da noi. Per gli standard israeliani è molto lontano. Sasha, la nostra figlia maggiore che vive a Mosca, è venuta a trovarci. Ora si è unita alla Chiesa cattolica e all’inizio di luglio era il suo compleanno, ha compiuto 30 anni. Ed era proprio domenica. E lei dice: andiamo da qualche parte a messa. Abbiamo iniziato a pensare: beh, dove possiamo andare? Possiamo andare a Tel Aviv a cercare una chiesa, a Jaffa, nella città vecchia vicino al mare, ci sono diverse chiese. Possiamo andare ad Haifa, lì c’è un posto meraviglioso. E poi Alena, mia moglie, si ricorda che esiste un monastero a Latrun, in un posto chiamato Latrun. C’è stata una volta e le era piaciuto molto. Ho visto che la funzione era domenica mattina, ma il monastero è chiuso ai turisti. Bene, siamo saliti in macchina, abbiamo fatto i nostri 70 chilometri senza nemmeno essere sicuri che ci avrebbero fatto entrare, siamo entrati in un monastero chiuso. Non proprio chiuso: i cancelli erano socchiusi. Dentro non c’era nessuno, silenzio, vuoto. Una chiesa splendida e grande. C’è un uomo seduto sotto il portico, sembra un arabo, con un tatuaggio Alfa e Omega sul collo. Molto bello. Siamo entrati nella chiesa, due monaci stavano facendo qualcosa, preparandosi per la funzione, uno suonava l’organo con le cuffie senza fili. Ci siamo seduti in un angolo, in silenzio, vicino alla porta, cercando di mimetizzarci il più possibile. Ci sediamo e guardiamo cosa succede. Suonano le campane, arrivano altri dieci monaci. Sembra che la funzione sia già iniziata.
Uno di questi monaci si stacca dagli altri e viene dritto verso di noi. Mi sono fatto piccolo piccolo e ho pensato, da bravo “sovietico”, che ci avrebbero cacciati fuori.
Invece ci ha chiesto se avremmo ricevuto la comunione oppure no. Abbiamo risposto di no. E poi accade la cosa più inaspettata: “Se volete, dopo la funzione posso prepararvi il pranzo” – ci dice il monaco. In questo momento penso che è davvero una bella cosa: avevo guidato, avevo portato Sasha in questo monastero, e per tutto il tempo avevo pensato che ero un cattivo padre perché non avevo trovato nessun regalo per la mia bambina, dato che il regalo più bello non è qualche cianfrusaglia, ma una esperienza bella che ti rimane per tutta la vita, dentro di te. Non avevo trovato niente per lei di questo tipo e ora si presenta questo fratello monaco viene e dice: “Volete un’avventura?” “Certo che sì, rispondo, oggi è il compleanno di mia figlia!”. “Va bene, dice il fratello, allora non andate via dopo la funzione. E poi perché ve ne state seduti in disparte? Venite avanti”. Poi è iniziata la funzione ed è stata molto bella. Si è svolta tutta con canti gregoriani, nel più completo silenzio. È un monastero trappista, tutto è molto ascetico, essenziale, come da noi luterani praticamente. Senza fronzoli. Poi la funzione è finita e quest’uomo meraviglioso è uscito insieme a noi. Abbiamo attraversato diverse gallerie di pietra e siamo arrivati al refettorio, dove non c’era nessuno tranne me e Sasha. Il fratello trappista dice: “Che tipo di vino vi piace? Abbiamo vigneti qui intorno, produciamo vino. Quale preferite?” “Preferiamo il sauvignon blanc”, rispondiamo. “Ok, per ora per cominciare ecco del rosé. Nel frattempo preparo il pranzo”. E se ne va.

Dico a Sasha: “Guarda che bella cosa è successa per il tuo compleanno!” Poi ci si è avvicinato l’arabo che era seduto sui gradini, ci ha detto di essere direttore dell’enoteca del monastero. E dice che è contento che siamo venuti e che restiamo un po’ qui. E aggiunge: “Per caso hai bisogno di un lavoro? Sto cercando una persona per il negozio”. E io dico: “Vivo lontano, a 70 chilometri da qui, ma sono pronto, è così bello trovare il mio primo lavoro in Israele, non un lavoro qualunque, ma in un monastero dove vendono vino. Cosa si potrebbe chiedere di più? Ma, vede, il problema è che ora sto cominciando un master all’università. Ma se per caso non mi prendono verrò davvero. Mi va bene”. Dice: “Perfetto, siamo d’accordo”. Poi arriva il nostro monaco con un carrello, con dei contenitori di ferro e dentro c’è il nostro pranzo. Dice: “Ecco qua il vostro pranzo. Adesso abbiamo la preghiera, poi torno. Vi ho portato anche del vino bianco”. Cominciamo a mangiare: broccoli stufati, carne, lasagne, zuppa e vino. Siamo seduti alla grande e stiamo sempre meglio. Continuiamo la conversazione con l’arabo. Poi arriva il nostro meraviglioso monaco, fratel Daniel. Siamo già diventati più audaci e gli chiediamo da dove viene. È originario Repubblica Ceca. Poi dice: “Dimenticavo, è il compleanno di tua figlia!”. Scappa via e torna con due coppe di gelato.

E poi: “Oh, ma voi siete russi, dimenticavo …”. Scappa via di nuovo e porta il brandy. È fatto da loro. Insomma, ​semplicemente un’atmosfera incredibile. Poi fratel Daniel ci chiede: “Di cosa vi occupate?” “Facciamo film”, rispondiamo. E lui: “Oh, al nostro monastero manca proprio il cinema. Molto tempo fa, 20 o 30 anni fa, avevano fatto un film su di noi ma adesso non è più attuale ed è anche piuttosto noioso. Puoi aiutarci?” “Con piacere”, rispondiamo. E così nel monastero abbiamo anche trovato un nuovo progetto da sviluppare! Siamo usciti e Sasha ha detto che quello era il miglior compleanno della sua vita. Ecco la storia.

Poi con fra Daniel abbiamo cominciato a scriverci ogni tanto. Ad un certo punto ha scritto che sarebbe stato bello se fossi andato a parlare con l’abate e i fratelli, perché i fratelli prendono tutte le decisioni insieme, compresa la produzione del film. Qualche giorno dopo, al tramonto, arrivo al monastero. Fra Daniel mi viene incontro e mi dice che mi ha preparato la cena, e andiamo nel ormai familiare refettorio. Mi chiede se desidero del vino. E io rispondo che abbiamo un incontro con l’abate subito dopo, che non so se si può, se è appropriato … “Proprio per questo è appropriato!”, risponde. Siamo andati all’incontro di ottimo umore.

E lì è successa un’altra cosa straordinaria. Mi sentivo come il protagonista di un film. Una piccola sala, tutto molto ascetico, solo l’illuminazione moderna faceva capire che non eravamo nel XII secolo ma nel XXI. Tutto il resto, la stanza, le persone sedute sulle panche lungo i muri con l’abito trappista e il cappuccio, era medievale. Poi c’erano due sedie al centro della stanza. Su una ero seduto io, sull’altra, di fronte a me, l’abate. Mi faceva le domande in inglese e io rispondevo in inglese. Un frate seduto accanto a lui traduceva in francese. E chi sapeva l’inglese cominciava a ridere prima ancora che iniziasse a tradurre. Ho raccontato brevemente della mia vita, qualche domanda e l’incontro è finito. Nei monasteri non sono molto veloci, i frati hanno bisogno di tempo per pensare.

Una settimana dopo, Daniel scrive che è tempo di vendemmia, e ci invita ad andare a riprendere questo momento, mentre si decide in merito al futuro film. Rispondo di sì, certo, trovo un ottimo operatore a Tel Aviv. Con lui arriviamo al monastero. Dormiamo lì e per mezza giornata mi vengono date le chiavi con le quali posso aprire e chiudere le porte del monastero! Dalle 7 del mattino filmiamo l’intero procedimento della vendemmia. Subito prima di Natale abbiamo inviato un promo e ora ci stiamo preparando a girare un documentario.

Torniamo alla Russia. Vedi la possibilità di un cambiamento in Russia? Si può sperare nella generazione che hai visto in Piazza Pushkin? In cosa è diversa dalle altre generazioni in Russia? Secondo una certo ipotesi, è una generazione diversa da tutte le altre, sono quelli che oggi hanno tra i 18 e i 25 anni. In che modo il futuro della Russia dipende ora da loro?

Penso che ciò che si è formato dentro di noi nel corso dei secoli non possa cambiare in una sola generazione. Si tratta di una condizione, del rapporto con sé stessi, con il potere, con i paesi che ci circondano, una specie di coscienza “imperiale”, un sentimento di sé come qualcosa di grandioso, di globale, come qualcosa di molto significativo nel mondo. Una decina di anni fa ho avuto una conversazione con un’amica che era andata in America e poi aveva lavorato a lungo a Venezia e poteva quindi paragonare la gente in Italia e negli Stati Uniti. Mi diceva che se volevo emigrare dalla Russia dovevo andare assolutamente da qualche parte in America. Perché, diceva, “noi siamo come gli americani. Con gli americani abbiamo in comune l’atteggiamento verso il mondo intorno a noi: possiamo sconfiggere tutti, mostriamo a tutti che siamo russi, che siamo americani”. La ascoltavo e pensavo che era un’idea interessante. E ora capisco che la guerra con l’Ucraina è iniziata e continua proprio perché risponde al bisogno di grandezza e di potere di gran parte del popolo russo.

Ho una figlia che ora ha 21 anni e appartiene proprio a questa generazione. È molto difficile per lei adesso, ma devo dire che lei è un’eccezione, perché se pensi a quante persone della sua età, tra i 18 e i 25 anni, stanno combattendo … Quante persone in Russia sostengono ciò che sta accadendo! Non so, non credo che una generazione possa cambiare qualcosa. Mi sembra che si debba trattare piuttosto di un processo come ad esempio per la Germania, che ha subito una sconfitta incondizionata, è stata umiliata, divisa e messa nella posizione di perdente, e poi il mondo intero si è impegnato nella sua denazificazione per decenni. A dire il vero, dal 24 febbraio 2022 viviamo senza pensare troppo al futuro. E soprattutto gli avvenimenti del 7 ottobre in Israele mi hanno confermato in questa concezione della vita. Naturalmente abbiamo qualche progetto, ma non sono speranze per un futuro lontano, riguardano piuttosto i progetti per massimo un anno. Tutto può cambiare molto rapidamente, quindi dobbiamo vivere oggi, senza rimandare nulla a dopo. Perché dopo è già oggi. Cioè, volevo andare in Israele, prima o poi, e ora siamo qui. Avrei voluto studiare, prima o poi, e qui ho iniziato a frequentare un master, e ne sono molto soddisfatto, anche se la gran parte di quelli che studiano con me potrebbero essere miei figli. Sono sorpresi e mi chiedono quanti anni ho, se ho dei figli. Io dico sì, certo, la mia figlia maggiore ha 30 anni. “Quindi la tua figlia maggiore è più grande di me?” E ridono. Sì, rispondo, perché no! O, ad esempio, mia moglie Alena, voleva imparare l’inglese, primo o poi. E ora lo studia ogni giorno.

Non romperemo nemmeno i legami con la Federazione Russa, perché lì abbiamo ancora famiglia, amici e clienti. Non voglio lasciare nessuno in questa situazione. Lì vivono le mie figlie più grandi e anche i genitori di Alena.

Molti dei nostri conoscenti erano contrari alla guerra della Russia con l’Ucraina, eppure, si sono improvvisamente rivelati sostenitori di Hamas, sostenitori di un’organizzazione terroristica. Stanno cercando di accettare la posizione di Hamas, di immedesimarsi nella posizione della Palestina sofferente. Questa è, diciamo, la trasformazione delle persone, cosa ne pensi? Perché tali cambiamenti avvengono così facilmente nella coscienza?

Penso che molte persone in Europa non sappiano o non capiscano cosa sta succedendo in Israele e nei dintorni. Vivono semplicemente guidati dal tipo di costrutti mentali con cui noi, il popolo sovietico, siamo effettivamente cresciuti, nel paradigma del popolo palestinese in lotta. Yasser Arafat, con la sua kefiah, era letteralmente membro di ogni famiglia sovietica, per quanto spesso veniva mostrato in TV durante la mia infanzia. I cliché della propaganda sono così radicati nella testa delle persone che se dici “israeliana” qualsiasi adulto in Russia completerà con “milizia” [in russo l’aggettivo precede il sostantivo ndr]. È tutto così ormai sedimentato che non c’è nemmeno bisogno di cercare di capire, tutti sanno già chi ha ragione e chi ha torto, non importa che le istituzioni internazionali siano corrotte dal denaro arabo, non importa che in Siria e Libano solo negli ultimi anni, per mano dei siriani e dei libanesi, siano stati uccisi decine se non centinaia di migliaia di palestinesi, non importa: come suol dirsi, no jews, no news … Ebbene, va di moda essere di sinistra, significa essere contro tutto ciò che è male, in favore di tutto ciò che è bene, questo piace tanto a tutti, essere sempre dalla parte dei deboli. Ci è stato insegnato fin dall’infanzia a stare dalla parte dei deboli… E poi il terribile Israele ha attaccato la piccola e indifesa Gaza, composta esclusivamente da donne e bambini. E il fatto che l’ultimo soldato israeliano abbia lasciato Gaza quasi 20 anni fa, e durante tutti questi 20 anni la pacifica Gaza abbia lanciato decine di migliaia di razzi contro il terribile Israele, e il 7 ottobre, in un giorno, siano stati violentati, accoltellati, bruciati e rapiti più di millequattrocento israeliani, questa sembra essere una forma così civile di lotta per la libertà?  
Secondo punto: Israele, in realtà, ha fatto molto poco, o meglio, non ha fatto quasi niente, per spiegare e comunicare la propria posizione. Quello che ho fatto nei primi giorni di guerra è stato preparare 5 o 6 video in diverse lingue, compreso l’italiano, e pubblicarli sui social. Questi video spiegano cose che agli israeliani sembrano assolutamente ovvie, evidenti e che non richiedono alcuna spiegazione. Ma per il mondo intero sono cose completamente nuove, assolutamente sconosciute.

Per esempio non sapevo che i figli e i nipoti dei palestinesi, diventati rifugiati nel 1948 a seguito della guerra d’indipendenza israeliana, oggi ricevono lo status di rifugiato alla nascita, e per tutta la vita ricevono denaro dalle Nazioni Unite per questo. Cioè, lo status di rifugiato palestinese è ereditario. Nel 1952 c’erano 400mila rifugiati, e ora sono 6,5 milioni, semplicemente perché hanno messo al mondo figli e nipoti. In realtà, per qualche motivo, il mondo occidentale sta facendo questo gioco, assegnando loro questo status, dando loro speranza in qualcosa: se sei un rifugiato, devi tornare a casa tua. Dove è questa casa? Ebbene, a casa, from the river to the sea, sì, cioè è assolutamente logico se ti chiamano rifugiato. E i campi profughi non sono tende nel deserto, sono da tempo città normali. Nella Federazione Russa, non tutte le città, assolutamente non tutte, sono simili a certi campi profughi. Provate a digitare “campo profughi di Shuafat” su Google e vedrete che si tratta di un sobborgo di Gerusalemme che assomiglia proprio a una città chic dell’Olanda o della Germania. Solo più sporca. Ci sono molte cose che gli israeliani sanno da molto tempo, ma che il resto del mondo ignora e a cui gli israeliani, per qualche motivo, non hanno prestato attenzione. E i gruppi terroristici hanno riempito questo vuoto informativo con la loro propaganda. Ecco perché è successo quello che è successo.  

Terzo punto: stanno venendo alla luce cose sorprendenti. Per decenni, prestigiose università americane hanno ricevuto finanziamenti per miliardi di dollari dai paesi del Golfo Persico. Sono stati finanziati i professori che esprimevano il punto di vista “gradito”, sono stati erogati fondi per una ricerca all’interno del “progetto neocoloniale bianco”, come ci chiamano. Ecco perché oggi gli studenti ebrei della Columbia University vanno alle lezioni sotto scorta. È chiaro che nessun paese arabo, e nemmeno tutti i paesi arabi, possono sconfiggere militarmente Israele, anche se ci hanno già provato più volte. Stanno quindi cercando di farlo in un modo diverso, con il “soft power”. Come ora mostra la ricerca, negli Stati Uniti le persone sostengono Israele da più di 45 anni, e sostengono la Palestina da meno di 45 anni. Cioè, penso che tra 10-20 anni Israele non avrà alcun sostegno da parte degli Stati Uniti e dell’Occidente, perché le persone cresceranno e arriveranno al potere quelli che sono cresciuti grazie a queste sovvenzioni e a questi finanziamenti.

Oggi chiamiamo i nostri amici e parenti ucraini e parliamo degli attacchi missilistici, perché abbiamo problemi comuni. A volte al telefono si sentono le sirene dei raid aerei: suonano contemporaneamente per loro e per noi. E abbiamo lo stesso obiettivo: vincere e sopravvivere. Perché perdere per noi e per loro significa una cosa sola: una morte lunga, terribile e dolorosa per mano di persone che per qualche motivo hanno deciso che noi, i nostri vicini, i nostri amici e i nostri figli non abbiamo diritto alla vita.  Se questo significa cambiare le nostre vite e il nostro Paese, lo faremo, e faremo anche di più. Semplicemente non abbiamo altra scelta.


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