Vito D'Anza

Cura e presenza: così abbiamo abolito la contenzione

di Veronica Rossi

Lo psichiatra Vito D'Anza ha diretto a lungo un Spdc - Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura in cui è riuscito per quasi vent'anni a non legare nessuno. In occasione del centenario di Franco Basaglia, ha raccontato a VITA la sua esperienza, fatta di vicinanza, ascolto e servizi attenti ai bisogni di cura delle persone. Una rarità, in un sistema in cui si aggira ancora lo spettro della psichiatria tradizionale

L’eredità di Franco Basaglia vive ancora? È questa la domanda che sorge a cent’anni dalla nascita del grande psichiatra veneziano, a cui noi di VITA abbiamo cercato di rispondere con il magazine di marzo, dedicato a questo tema. Se è vero che la situazione della salute mentale in Italia non è sempre rosea, è anche vero che esistono dei luoghi in cui il pensiero che ha ispirato la Legge 180 viene ancora coltivato e mantenuto vitale. Uno di questi è il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura – Spdc di Pescia, dove non si lega nessuno da molti anni. A dirigere il dipartimento, fino a pochi mesi fa, Vito D’Anza, del Coordinamento nazionale salute mentale.

Com’è iniziata la sua esperienza in questo reparto?

Io sono arrivato nel 2005 a dirigere il dipartimento di salute mentale dell’Azienda sanitaria – Asl3 della Toscana, che allora era composta due unità funzionali, uno della Valdinievole, con 130mila abitanti, e uno della zona pistoiese di 160mila. Ho preso prima servizio come direttore di struttura a Valdinievole; sono arrivato a inizio marzo e il primo giorno sono andato a visitare e a conoscere il luogo. Il secondo giorno sono andato nell’Spdc, ho trovato qualche ricoverato, ma soprattutto una signora, penso avesse dai 72 ai 75 anni, legata al letto. Allora ho chiesto al medico di turno come mai questa persona anziana, una donna davvero tranquilla, fosse legata. Lui mi ha risposto che era per evitare che potesse cadere, anche per l’effetto dei farmaci.

E questo primo impatto con un Spdc l’ha colpita molto.

Io, vista anche la mia storia personale, sono “basagliano”, anche se questa parola può significare tante cose. Vengo da una scuola, quella di Napoli di Sergio Piro, che aveva fatto della contenzione meccanica una questione importante di cui dibattere. Quindi al mio arrivo nella struttura ho cominciato a fare delle riunioni settimanali con tutto il personale del reparto sulla necessità di non legare al letto le persone e di impostare in modo diverso il rapporto con i pazienti. A giugno ho fatto una disposizione di servizio, in cui ho detto: «A partire da oggi all’interno dell’Spdc è abolita ogni forma di contenzione». Su questo punto avevo alle spalle anche un Piano sanitario regionale della Toscana, che vietava in maniera tassativa ogni forma di contenzione meccanica negli Spdc e disponeva di monitorare attentamente la sedazione farmacologica. All’inizio ho chiesto che se fossero capitate delle occasioni in cui gli operatori non sapevano come fare senza legare mi chiamassero, in qualsiasi momento.

Ed è successo?

In realtà, tranne il primo anno, in cui mi hanno chiamato due volte, nei 18 anni successivi non l’hanno più fatto. Il che significa che da quel mese di giugno del 2005 fino alla fine del 2023 non c’è stata alcuna forma di contenzione meccanica. Ci tengo a sottolineare, però, che non legare non è una questione che dipende solo dall’Spdc. Quello che avviene all’interno del reparto è determinato da quello che sta fuori, dal resto dei servizi, se c’è un centro di salute mentale che funziona, se ci sono appartamenti supportati, una rete territoriale. Alla contenzione ci si arriva più facilmente se i servizi non hanno protocolli con il 118 e se mancano gli interventi nei luoghi di vita delle persone. All’epoca, per esempio, abbiamo fatto un protocollo con il 118, in cui abbiamo stabilito che in orario di apertura dovesse sempre essere avvisato il servizio prima di qualsiasi intervento di natura psichiatrica, in modo che un medico o un infermiere potesse recarsi sul posto, per cercare di ridurre il numero di Tso (trattamenti sanitari obbligatori, ndr) e di Aso (accertamenti sanitari obbligatori, ndr). Così noi, per 18 anni abbiamo fatto solo quattro/cinque Tso ogni 100mila abitanti, credo uno dei numeri più bassi in Italia. Poi, in questo modo, chi arrivava in ospedale accompagnato dagli operatori dei servizi, che già conosceva, tendeva a essere più rassicurato e tranquillo. Così, anche se non abbiamo mai legato, non abbiamo nemmeno avuto degli episodi aggressivi eclatanti o più numerosi rispetto ad altri reparti. Possiamo quindi testimoniare che evitare la contenzione è possibile.

Quello che avviene all’interno del reparto è determinato da quello che sta fuori, dal resto dei servizi

Una delle critiche che vengono fatte a chi sostiene che negli Spdc non si dovrebbe legare, è che in questo modo sarebbe necessario aumentare la somministrazione di farmaci.

Questo non è assolutamente vero. Dove non si lega è perché ci sono relazioni più valide tra operatori e utenti. Negli Spdc che applicano la contenzione, nel 99% dei casi vengono somministrati almeno altri tre farmaci, di solito benzodiazepine e uno o due neurolettici, a dosaggi molto alti. Darne due è diventata quasi la norma, per quanto la letteratura, anche a livello internazionale, sostenga che vada somministrato un solo neurolettico, due in casi del tutto eccezionali. Certo, anche noi abbiamo usato medicinali, ma di sicuro a livello più basso rispetto ai reparti dove si legano le persone.

Però per seguire le persone in questa maniera serve più impegno.

Nei servizi ormai c’è un modo molto sbrigativo di seguire le persone. Troppo spesso gli psichiatri stanno con i pazienti cinque o dieci minuti e liquidano la situazione dicendo che non collaborano e che quindi è necessario un Tso, perché sono resistenti a qualsiasi forma di condivisione della scelta terapeutica. Invece, come dice il collega romano Piero Cipriano, bisogna stare accanto alle persone che hanno un momento di crisi, fino allo sfinimento, per far decantare la situazione e rassicurarle. Bisogna starci vicino in una relazione che può durare anche ore. Il problema è che ci stiamo concentrando sempre di più sulle prestazioni, che sono puntiformi e più brevi e richiedono di essere sbrigativi. La questione decisiva è dare alle persone il tempo necessario. In questo modo potremo avere anche Spdc a porte aperte – che è l’altra caratteristica del reparto che ho diretto –, durante il giorno, dalle 8:00 alle 20:00. Si tratta di un elemento importante perché quando le persone sono tenute in cattività è più facile che sviluppino aggressività: una porta chiusa va sfondata, bisogna scappare. Se invece ci si può allontanare quando si vuole si tenderà a rimanere. Su questo non esistono ricerche attendibili, ce n’è solo una fatta a Trento, in cui si affermava che mediamente si allontanavano – scappavano, come dicevano loro – tre persone al mese dall’Spdc, quindi circa 36 all’anno. Da noi se ne sono andate credo una ventina in 18 anni, perché c’era una dimensione rispettosa dei diritti dei pazienti, che a volte vengono dimenticati, come succedeva nei manicomi e come può succedere anche oggi. La maggior parte delle persone pensa che l’obiettivo di Franco Basaglia fosse la chiusura degli ospedali psichiatrici. Era una questione decisiva, ma il punto centrale era un altro.

La questione decisiva è dare alle persone il tempo necessario

Quale?

La trasformazione della psichiatria tradizionale, quella rimasta immutata dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri, sia dal punto di vista metodologico che epistemologico. Vedo una malattia, faccio una diagnosi, a cui corrisponde un farmaco o una terapia. Lui invece voleva impostare una presa in carico che significava presenza, interventi a domicilio, ma anche operatori formati in modo da condurre un discorso che andasse in questa direzione. Il problema è che le università non si sono mosse di un millimetro dall’impostazione tradizionale.

E questo che implicazioni ha?

È chiaro che se i Piani sanitari regionali prescrivono una cosa e poi nei servizi arrivano operatori formati nelle università, che vanno in un’altra direzione – come un’ente separato che vive di diagnosi e terapia e non di cura – c’è una dissociazione tra le norme e gli obiettivi nazionali e le loro applicazioni pratiche. Questo, secondo me, è stato ed è ancora uno dei grossi ostacoli all’applicazione della Legge 180.

E le risorse economiche? In Italia solo il 3% della spesa pubblica per la sanità è destinato alla salute mentale.

Dobbiamo essere onesti, il problema delle risorse c’è ed è vero, i servizi sono in ginocchio. Ma non possiamo ridurre tutto a questo, perché anche quando c’erano più soldi le pratiche e le metodiche non erano diverse da quelle di oggi. Quindi c’è un problema di base: gli operatori in università sono formati per fare la stessa psichiatria che si fa in Germania o nel Bangladesh e non quella che si dovrebbe fare in un Paese in cui c’è stata – come ha detto Norberto Bobbio – l’unica vera riforma del secolo scorso.

Però è vero che se per evitare la contenzione serve presenza, c’è bisogno di personale per riuscire a dedicare tempo.

Il numero delle contenzioni oggi, rispetto a dieci anni fa, quando c’erano più risorse, non è aumentato di molto. Quindi non è una questione solo di finanziamenti. Certo, è vero che se calano gli operatori si può dare meno presenza, ma se non c’è un’idea di come lavorare con le persone e di quali siano le pratiche da mettere in campo, le cose non possono cambiare. Anche se, per assurdo, domani ci svegliassimo e ci fossero all’improvviso molte più risorse e quindi più personale.

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