Nove mesi, non per nascere ma per ri-nascere. Era il marzo del 1985 e da Milano 13 ragazzi tossicodipendenti e 6 educatori sono partiti in carovana per un lungo viaggio nella penisola italiana. Ogni tappa, ogni città ha rappresentato un cammino anche dentro se stessi. Un movimento di “liberazione possibile” dalla droga. Che poi non è mai solo una sostanza. E quindi c’era bisogno di liberarsi dal dolore che ci girava attorno. Dai vuoti che non si riuscivano a riempiere. Dalle risposte che i ragazzi non si sapevano dare, più che altro perché erano le domande che facevano fatica ad essere dette, a farsi richiesta. «Tornammo a casa qualche giorno prima di Natale dello stesso anno», racconta Franco Taverna, coordinatore di quella prima carovana di Fondazione Exodus di don Mazzi. «Ma la scommessa, la speranza e l’avventura contenute nella prima carovana segnarono gli anni successivi». Ufficialmente il progetto Exodus è nato un anno prima: era il 1984 e un parco alla periferia di Milano, il parco Lambro, regno della droga, viene quasi colonizzato da don Antonio Mazzi, presidente e fondatore di Exodus, per risanarlo con il supporto degli stessi tossicodipendenti. Quella è stata tra le operazioni sociali più importanti per la città di Milano di quegli anni. Ed anche un gesto simbolico fortissimo che oggi ancora rimane: non isolare il malessere ma entrarci dentro, condividerlo. «36 anni fa noi abbiamo cominciato questo progetto chiamato Exodus con una Carovana», spiega don Mazzi, «un'avventura che coinvolge tutto il corpo. Nella Carovana si creano relazioni e cambiamenti tali, per cui, alla fine, i ragazzi arrivano sì con le scarpe rotte, stanchi… ma arrivano diversi. Diversi dalla testa alle scarpe, ai piedi. Diversi non vuol dire più buoni, non vuol dire migliori, vuol dire “diversi”. Ad ogni tappa occorre ricordare che cosa ha mosso il viaggio, bisogna far memoria della follia originaria e pensare al cammino per ogni singolo ragazzo, altrimenti si perde il senso del cammino e per noi il cammino è sempre stato una strategia privilegiata».
Oggi quel progetto lì è ripartito e si rivolge agli adolescenti: «Si chiama Pronti,Via!», spiega Franco Taverna coordinatore dei progetti sulla povertà educativa della Fondazione. «È finanziato dall’Impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Pensato come un intervento quadriennale per dare una risposta psico-socio-educativa a minori sottoposti a misure restrittive da parte della Autorità giudiziaria, attraverso il modello Carovana, vuole offrire un’alternativa al carcere minorile».
Il 25 marzo 1985 partiva dal Parco Lambro il primo progetto educativo itinerante: una carovana per tossicodipendenti. Cosa è cambiato in 36 anni?
Quella era sicuramente un’altra epoca sotto molti punti di vista. Allora c’era un “sistema” che veniva contestato, un sistema economico, politico, religioso, sociale. Oggi il sistema è saltato. Allora anche la droga aveva un sapore di ribellione contro l’ordine costituito, assimilabile per certi versi anche al terrorismo. Adesso le derive educative non sono connotate da rabbia ma piuttosto da mancanza di senso. In questi 36 anni abbiamo perso per strada perfino i nemici e di conseguenza li stiamo costruendo dentro di noi.
Dopo diverso tempo avete riformulato il progetto della Carovana e siete partiti con Pronti, Via! Una strada alternativa al carcere minorile. Cosa c’è un in questo nuovo progetto della Carovane dei primi anni?
La carovana era ed è la proposta di un viaggio di liberazione. Noi crediamo che l’idea di un esodo, di un viaggio di salvezza sia sempre stata potente nella storia degli uomini e delle donne e lo sia ancora oggi. Forse anzi ancor di più oggi, in questo tempo di smarrimento. Dobbiamo alzarci e partire e lo vogliamo fare proprio con i ragazzi, cominciando con quelli che hanno sbagliato.
Si può fare un parallelismo tra i ragazzi della carovana di oggi e i ragazzi di “ieri”? Prossimo dire che a fare de denominatore comune è la fragilità? E se sì, come si lavora sulla fragilità?
Credo che i ragazzi e le ragazze di oggi siano intimamente più fragili di quelli di ieri. E penso che la ragione risieda fondamentalmente nella mancanza di argini, di elementi solidi, di figure di riferimento veramente importanti, nel bene o nel male… L’adolescente ha bisogno di sfide, la sfida è il modo in cui cerca se stesso, ma se tutto intorno a lui è molle, informe, è tutto e anche il suo contrario, se gli adulti che ha intorno sono più persi di lui o peggio sono sempre e solo incazzati e delusi, quale appiglio trova per tentare una arrampicata e arrivare sulla sua vetta? Ecco allora per lui le due possibili vie d’uscita che vediamo nei nostri giorni: la chiusura totale o lo scoppio della violenza gratuita. L’antidoto a questa fragilità è giocare una partita vera, seria, stare insieme, adulti e adolescenti, guardandosi negli occhi, a vivere un’avventura importante, bella, affascinante, unica, mia. Altrimenti tutto perde valore, non vale la pena, la scuola, la famiglia, e poi anche lo sport, tutto.
Il ricordo della carovana più bella?
La prima e l’ultima. Sempre. La prima perché ha veramente segnato una nuova strada, tanti anni fa. E l’ultima perché sono solo gli ultimi passi quelli che ci fanno capire che siamo ancora in cammino. Se uno non cammina, sta fermo, e allora è finita!
Quante delle persone che hanno partecipato alla carovana poi comunque sono tornate su vecchie strade? Sono tornate alla tossicodipendenza? Quante non ci sono più?
Si, come dicevo, la carovana è una proposta, non è la bacchetta magica. Ci devi mettere del tuo, se no non funziona. Poi ci sono gli errori, sempre dietro l’angolo, dei ragazzi e degli educatori, e davanti agli errori non ci si può scoraggiare, ci vuole pazienza… un vero educatore non dovrebbe mai dire basta, ma saper inventare davanti ad ogni sbaglio una nuova occasione, una nuova magia. Io purtroppo a volte mi scoraggio, devo ancora diventare un vero educatore!
Che vuoto lascia questa perdita? E come ci si rapporta da educatori a un processo educativo che fallisce, che non va a buon fine?
Il fallimento c’è ed è doloroso. Specialmente quando pensi di aver fatto il possibile e ti illudi di aver combinato qualcosa. Quando credi che un certo cambiamento positivo sia avvenuto per merito tuo, ma poi la ruota improvvisamente gira nell’altro senso e ti arriva come un pugno nello stomaco. Dopo anni di esperienze di questo tipo ho imparato a considerare queste sconfitte come episodi salutari, come schiaffi che mi riportano alla realtà: non sono io, educatore, il protagonista o il regista del film della vita dei ragazzi… devo tornare umilmente con i piedi per terra e svolgere con umiltà il mio ruolo di operaio, presente, attento, capace di tenere e di lasciare la mano del ragazzo, il vero “artista”.
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