Migranti

I morti invisibili del Mediterraneo sono migliaia

di Anna Spena

L'organizzazione internazionale delle migrazioni ha dichiarato che dall'inizio del 2016 sono quasi tremila le persone morte mentre attraversavano il Mediterraneo: la rotta migratoria più pericolosa ma anche la più battuta. Ma questo è solo il dato ufficiale che non basta a raccontare la tragedia vera che si consuma in queste acque. Nessuno conosce il numero esatto dei corpi senza vita che sono scomparsi nei fondali. Qualcuno poi riappare sulle coste libiche, africane, o nelle reti dei pescatori tunisini

Quando il 2 settembre 2015 la foto di Aylan, il bambino siriano di tre anni che è arrivato morto dopo un naufragio sulla spiaggia turca di Bodrum, ha fatto il giro del mondo si è squarciato un velo tra noi e loro. Tra noi e i migranti. Quella foto ha colpito più forte il cuore, forse perché era un bambino. Forse perché sembrava dormisse. Forse perché poteva essere nostro figlio, fratello o nipote. Aylan fa parte dei 3771 migranti morti nel Mediterraneo nel 2015. Poi sono passati i mesi.

E a fine maggio 2016 a sconvolgerci e a fare il giro dei media nazionali ed internazionali è stata un’altra fotografia, di un altro bambino – a differenza di Aylan rimasto senza nome – che pure ha messo in crisi l’Europa. Il bambino, di cui non si conosce niente, era stato imbarcato su un gommone che dalla Libia cercava di raggiungere l’isola di Lampedusa. Ha raccoglierlo dall’acqua mentre “sembrava una bambola che galleggiava” è stato Martin, un volontario dell’associazione tedesca Sea Watch. Sono stati loro a pubblicare e diffondere la foto “per convincere i governi ad aprire i canali umanitari”.

Il bambino rimasto senza nome fa parte, invece, dei 2942 migranti morti nel Mediterraneo dall’inizio del 2016, (dati Oim aggiornati all’undici luglio 2016). Confrontando i dati Oim, Organizzazione Internazionale delle migrazioni, degli ultimi due anni è subito evidente come l’anno in corso si stia dimostrando ancora più drammatico del 2015: si stimano mille morti in più nell’arco degli stessi mesi presi in considerazione.

Ad Aylan qualcuno ha tolto il futuro ma è un nome che nessun uomo di coscienza riuscirà a dimenticare. Il bambino senza nome nelle braccia del volontario tedesco è diventato un numero, e per quanto sia terrificante ammetterlo, è un numero che lascia un segno. Insieme agli altri numeri che contano i migranti morti in questi mesi.

Dati ufficiali che però non bastano a raccontare la tragedia delle morti in mare. Dei migliaia di corpi invisibili e dispersi senza un nome e senza un volto che poco alla volta il Mediterraneo si porta giù, in fondo, nell’abisso.

L’Oim attraverso il progetto Missing Migrants monitora costantemente il flusso dei migranti nel Mediterraneo: le partenze, i salvataggi, gli sbarchi, i morti. «Lavoriamo», ci spiega Flavio di Giacomo, responsabile della comunicazione Oim Italia, «facendo una rassegna stampa di tutti i media internazionali che hanno intercettato un naufragio e attraverso le testimonianze dei migranti che arrivano vivi sulle coste».

Da oltre 10 anni Oim infatti ha attivato, con il progetto Assistance, dei punti di supporto nei principali porti dove sbarcano i migranti. «Chiediamo loro di raccontarci quello che è successo. Quasi sempre hanno perso un parente o un amico durante la traversata».

Nonostante la meticolosità dell’analisi, neanche quella che fa l’Oim riesce a contenere tutta la tragedia che si consuma nel Mediterraneo. Ad ammetterlo è lo stesso Flavio di Giacomo: «Quella che facciamo noi è sicuramente un’approssimazione per difetto. È impossibile conoscere i numeri precisi, esatti, reali».

È impossibile perché in tantissimi muoiono all’inizio del viaggio, a poche miglia dalle coste africane. O si riscoprono molto dopo nelle reti dei pescatori sulle spiagge tunisine. È impossibile anche perché nei vecchi pescherecci malandati che non dovrebbero trasportare neanche 100 persone, ne vengono buttati dentro a centinaia. «Settecento, ottocento, ottocentocinquanta…», spiega a Vita.it Carlotta Sami, portavoce dell’Unchr del Sud Europa.

«Quelli che arrivano sono così stremati che diventa impossibile ricordare i volti di chi ha viaggiato con loro». Di chi ha viaggiato ed è arrivato, di chi è arrivato morto e di chi, invece, non è arrivato affatto. Che la rotta del Mediterraneo sia la più terribile lo ammettono tutti. «Ne muoiono sempre di più in questo mare. È difficile da navigare. I gommoni spesso, troppo spesso, sono “gommoncini” che si sgonfiano dopo due ore. Le correnti sono forti».

E che il Mediterraneo non sia un mare amico ma un cimitero a cielo aperto, ne è convinta anche Medici Senza Frontiere che per il secondo anno è andata in mare con tre navi la Dignity I, Bourbon Argos e Aquarius, (l’ultima in collaborazione con SOS Mediterranee).

«Il Mediterraneo resta l’unica via per migliaia di persone che cercano di raggiungere le coste europee, rimanendo anche nel 2016 la rotta migratoria più battuta», spiega Sara Creta di MSF, che adesso si trova sulla Bourbon Argos, che può raccogliere a bordo 700 migranti alla volta e li assistite con team specializzato di 26 persone.

«Rispetto ai numeri ufficiali ci rifacciamo a quelli dell’Oim», dice Sara Creta con Kim Klausen, responsabile MSF per le operazioni di ricerca e soccorso della Bourbon Argos. «Ma il numero ufficioso dei morti potrebbe essere molto più alto. Scompaiono come niente. Muoiono durante il viaggio in mare: per annegamento, soffocati nella stiva, intrappolati in una nave che si capovolge e affonda».

E chi la vede quella nave li che si capovolge e affonda? «Muoiono anche sulla rotta del deserto e nei centri di detenzione in Libia». Di loro chi potrà mai dirci qualcosa? «Neanche le famiglie», continuano i responsabili di MSF, «sanno che fine fanno una volta intrapreso il percorso migratorio. È impossibile calcolare il numero preciso dei morti. Ma il Mediterraneo è una fossa comune e i fondali sono pieni di corpi di cui non sappiamo niente». Qualcuno ricompare dopo trasportato dalla corrente del mare sulle coste Llbiche, africane, tunisine: “il mare se lo riporta a casa”.

Ho fatto parecchie foto, tra cui quelle all'oramai famoso "cimitero dei life-jackets" un posto assurdo in mezzo alla montagna con migliaia, anzi decine di migliaia di giubbotti salvataggio messi lì da volontari e greci dopo gli sbarchi, uno schiaffo in faccia allucinante, se ti metti a calcolare il guadagno dei trafficanti è da impazzire.

Daniele Biella dall’isola di Lesbo

«Sappiamo solo di qualcuno. L’altro giorno, ad esempio, abbiamo visto un migrante che galleggiava morto vicino alla nostra nave, sulla superfice dell’acqua. È stato trascinato a fondo dalle correnti e non siamo riusciti a recuperarlo, nonostante una ricerca che è durata fino al tramonto. Siamo qui oggi, a ripetere le stesse parole e gli stessi discorsi fatti nel 2013 dopo il tragico naufragio di Lampedusa. Le stesse parole e discorsi fatti lo scorso anno. Ma le persone continuano a morire cercando di attraversare il mare. Garantire canali legali e sicuri per chi fugge è l’unico modo per cercare protezione senza dover rischiare la propria vita in mare, o affidarla nelle mani di trafficanti senza scrupoli».

Muoiono silenziosamente. Muoiono due volte perché senza un numero non riusciremo mai a certificarne l’esistenza. «Sui loro giubbotti di salvataggio, per quelli che hanno la possibilità di comprarne uno, sono scritti i numeri delle loro famiglie. Prima di partire dalle coste della Libia o dall’Egitto, marcano i loro nomi, e nell’ultima preghiera racchiudono la speranza che se qualcuno li troverà, chiamerà la famiglia per comunicare la loro morte», concludono dalla Bourbon Argos.

Quante sono le famiglie che non hanno mai ricevuto quella telefonata?

I morti invisibili del Mediterraneo sono migliaia

Testi di Anna Spena
Foto di Sara Creta MSF

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