Traumi genitoriali

Il lutto, filo rosso del destino del prof. Diego

di Rossana Certini

Si può sopravvivere alla morte di un figlio? Il lutto per un genitore è un trauma profondo che mina l’autostima e la fiducia nel futuro. Se poi a causarlo è un suicidio la devastazione dell'anima è massima. Diego De Leo e Cristina Trevisan hanno perso i due figli adolescenti Nicola e Vittorio in un incidente stradale. La loro vita quel giorno si è fermata. Ma si impegnano, comunque, ogni giorno ad aiutare altri genitori nella loro stessa situazione attraverso le attività della De Leo Fund

Quella del professor Diego De Leo, psichiatra padovano esperto mondiale del tema del suicidio, è una vita segnata dall’esperienza del lutto fin dagli anni universitari quando un suo giovane collega si tolse deliberatamente la vita. Poi è lui stesso a rischiare di morire in un sinistro automobilistico. E il 5 aprile 2005 un altro incidente d’auto gli porta via per sempre i due figli adolescenti Nicola e Vittorio.

Per uno strano disegno del destino le situazioni private e professionali di quest’uomo si intrecciano le une nelle altre per condurlo verso una meta di cui non è facile comprendere il fine.

«Mi accorgo ogni giorno di più», ammette De Leo, «che chi ha vissuto un lutto si rivolge a me nella convinzione che solo io posso comprendere la drammaticità dell’evento che gli è accaduto. Solo chi come me è passato da quel dolore può sapere quanto innaturale è la perdita prematura della vita di un figlio. Sentono che possono condividere con me il senso di colpa che si prova nell’essere sopravvissuti alla creatura che si è generata. L’angoscia per la perdita irreversibile delle aspettative, dei sogni e dei progetti. Il lutto di un genitore è un trauma profondo che mina l’autostima e la fiducia nel futuro. Non ho timore a dire che se avessi fatto un altro lavoro, con meno passione, dopo la morte dei miei figli mi sarei tolto io stesso la vita. Quel giorno per me e per mia moglie Cristina è cambiato tutto per sempre. Questo tipo di privazioni fanno perdere senso alla vita, alle relazioni e alle cose che si fanno».

La notizia della morte dei due figli adolescenti raggiunse De Leo mentre era in Australia dove lavorava da alcuni anni dopo aver vinto la selezione per il posto di direttore dell’Istituto nazionale per gli studi sul suicidio.

«La decisione di partire per proseguire i miei studi altrove si rafforzò in me a metà degli anni Novanta dopo un gravissimo incidente stradale», spiega, «stavo percorrendo molto velocemente una strada quando, per scansare un cassonetto spinto dal vento al centro della carreggiata, sbandai e la mia auto entrò in un canale. Mentre l’acqua sommergeva l’abitacolo sono riuscito a rompere il finestrino posteriore e a uscire. La disperazione fa fare cose inimmaginabili. Ero così ridotto male che un camionista, fermatosi per aiutarmi, alla mia vista svenne. Vissi questo episodio come un segno della vita. Pensai volesse dirmi che, anche se ero realizzato professionalmente, guadagnavo molti soldi ed ero conosciuto per i miei studi, in realtà non servivo a nulla se non a me stesso. Sentii che dovevo esprimere gratitudine per essere vivo. Così partii per l’Australia, un paese che aveva un tasso di suicidio almeno il doppio di quello italiano e dove potevo continuare al meglio le mie ricerche».

Alla scelta di occuparsi di studiare i suicidi, invece, Diego De Leo era giunto durante gli anni dell’Università quando frequentava il terzo anno di specializzazione in psichiatria a Padova.

«Avevo 27 anni», racconta, «seguivo uno specializzando del primo anno. Un ragazzo intelligente, vitale e sportivo. Avevamo entrambi la passione per lo studio degli effetti dello stress sulla psiche e avevamo cominciato a scrivere degli articoli insieme stringendo un’alleanza professionale. Chi ci vedeva dall’esterno sicuramente percepiva me come più sofferente di lui. Invece, un giorno, fui informato da una collega che si era suicidato. Questa esperienza mi scosse profondamente. Sentii in me l’impotenza e lo sbigottimento di chi non aveva capito nulla di una persona così vicina. Proprio io che mi sentivo particolarmente incline a capire la sofferenza degli altri non avevo percepito nulla. All’inizio fu una dolorosa ferita narcisistica che mi fece comprendere come il mondo degli umani è molto più complesso di quello che si può immagina. Poi la profonda crisi esistenziale in cui entrai mi portò ad abbandonare gli studi sullo stress e a indirizzare il mio lavoro verso il tema del suicidio».

In quegli anni il giovane De Leo cercò di aprire a Padova un ambulatorio per persone con tendenze suicidarie senza trovare l’approvazione del suo dipartimento e decise, così, di spostarsi in Europa per proseguire i suoi studi sul suicidio.

«Iniziai a impegnarmi per la creazione della Società italiana per la prevenzione del suicidio», prosegue, «nel 1992 strutturammo a Padova la prima Unità di raccolta dati e storie umane. Persone che venivano a chiederci perché avevano perso un figlio, un marito, qualche volta un padre, molto raramente una madre. Cercavamo di capire come far cessare il loro senso di colpa provocato dalla consapevolezza di non aver saputo intercettare la sofferenza o non aver dato credito ai richiami al suicidio fatti dai loro cari. Da una parte queste persone ci chiedevano conforto e dall’altra assoluzione».

Le risposte più profonde a quelle domande il professor De Leo le ha dolorosamente trovate in se stesso dopo la perdita dei figli.

«I colleghi americani fecero una donazione all’Associazione internazionale per la prevenzione del suicidio», spiega, «la chiamarono De Leo Fund. Questo gesto mi commosse molto. Nel 2007 altri amici italiani crearono la Onlus con lo stesso nome nel nostro Paese. Io e mia moglie in quel momento non avevamo la forza di fare nulla. Certo i traumi provocati da una morte improvvisa di un figlio dovuta a un incidente di qualsiasi tipo sono forse diversi da quelli causati da un suicidio, tuttavia il senso di colpa accompagna il dolore di ogni genitore. Mi sono chiesto tante volte cosa sarebbe accaduto se io fossi stato in Italia con loro, se mio figlio minore, che aveva la febbre alta, non fosse stato preso dagli amici dal collegio per ritornare a casa ma lo avessi riaccompagnato io. Ogni giorno le persone che si rivolgono alla De Leo Fund, anche se non lo verbalizzano, so che con lo sguardo chiedono a me e a mia moglie come sia possibile superare una tragedia così. E il nostro essere lì in Fondazione li rassicura sulla possibilità che anche loro potranno un giorno farcela a sopravvivere».

La rete di affetti ha salvato questi due genitori che vivono come in una bolla senza tempo. «Alcuni amici sono spariti», racconta, «credo per il troppo imbarazzo di non saper cosa dire. Comprendo che è difficile guardarci negli occhi con la consapevolezza di avere quel che noi non abbiamo più: una vita fatta di nipoti, cenoni di Natale e viaggi di famiglia. Tutto questo per alcune persone è difficile da gestire. Non è una leggenda quella del cambiare marciapiede, attraversare la strada è un modo di evitarti. Ma li capisco perché è difficile chiederti: “come stai?”. Se lo immaginano che stai male e soprattutto sanno di non avere quella parola che può esserti di conforto».

Eppure spesso si aiuta chi soffre a superare il dolore standogli semplicemente vicino in silenzio.

«Quando senti che sono lì per te anche se non dicono nulla», prosegue De Leo, «ti è di enorme conforto. Questo bisogno di cura silenziosa lo abbiamo sperimentato in Fondazione quando nel marzo 2014 un piccolo gruppo di mamme ha cominciato a trovarsi settimanalmente, avendo come obiettivo la creazione di ghirlande e altri oggetti decorativi per il Natale. Donne che custodivano lo stesso dolore, sapevano che stando insieme, senza bisogno di parlare ma facendo un’attività manuale, si confortavano a vicenda».


Questo primo tentativo ha avuto fortuna e si è trasformato in un evento natalizio annuale, che è stato chiamato “Un Natale fatto a mano”. Negli anni dalle ghirlande si è passati alla realizzazione di un “Panettone solidale”. Nel 2022 la campagna natalizia è stata realizzata con il generoso contributo dell’azienda padovana Malìparmi, che ha voluto sostenere l’associazione donando i “tessuti della memoria” con cui sono realizzate le confezioni.

«La vita senza la persona cara può diventare difficile da affrontare. Così ci si può sentire in trappola e profondamente soli nel proprio dolore», conclude De Leo, « Per questo motivo è di fondamentale importanza ricevere un aiuto. Dal punto di vista pratico ed emotivo si può far riferimento ai propri familiari e agli amici. Per quel che riguarda l’affrontare psicologicamente il lutto traumatico può essere utile rivolgersi a dei professionisti. Molto importante risulta anche l’aiuto dei pari, ovvero le persone che a loro volta stanno vivendo un lutto traumatico. Con queste persone ci si può sentire maggiormente compresi e accolti, come avviene per esempio nei gruppi di mutuo aiuto».

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