Michael Klheifi

Il mio cinema? Esprime tutto il coraggio del popolo palestinese

di Gilda Sciortino

Fondatore del cinema palestinese contemporaneo e una delle sue voci più originali, per Michel Khleifi la cinepresa è lo strumento per raccontare la cruda realtà attraverso immagini alle quali non servono commenti «Guardandomi attorno, quando ho cominciato questo mestiere, sapevo che quello che vedevo sarebbe stato tutto distrutto. Quindi mi ripromisi di registrare qualunque cosa, consapevole che sarebbe stato il passato. Volevo tenere traccia dei ricordi, di com’è vivere durante un’occupazione, di cosa ci si ricorda in quei frangenti»

I film di Michel Khleifi sono considerati classici del cinema moderno palestinese. La storia dei tre gioielli, per esempio, è stato il primo film a essere stato girato nel 1994 a Gaza. Nel 2009, invece, uscì Zindeeq, con un approccio nei confronti della politica israeliana più cinico e severo, acclamato dalla stampa araba e vincitore del “Gran premio Muhr” al Festival internazionale del cinema di Dubai.

Nato nel 1950 a Nazareth da una famiglia operaia palestinese, da adolescente Khleifi sognava di studiare cinema all’estero. Erano, però, tempi in cui la sua città non poteva offrirgli il futuro che desiderava, quindi decide di spostarsi in Belgio dove, nel 1970, si laurea alla scuola di cinema Insas di Bruxelles. Finiti gli studi, comincia  a lavorare per la televisione cimentandosi nella produzione di servizi giornalistici, ma l’amore per il cinema lo porta alla regia di film, ambientati soprattutto in Israele e in Palestina.  Oggi, Khleifi insegna regia nella scuola dove ha conseguito la laurea ed è, inoltre, supervisore del progetto didattico audiovisivo della Fondazione A.M. Qattan, che opera per lo sviluppo della cultura e dell’istruzione in Palestina e nel mondo arabo.

Abbiamo incontrato Michel Khleifi ai Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo, spazio in cui la cultura diventa occasione per creare percorsi di rigenerazione urbana, per esempio proprio attraverso il cinema. Nel capoluogo siciliano, infatti, Michel Khleifi ha ricevuto il premio alla carrieraL’Efebo d’oro”.

Un premio, quest’ultimo, a lei molto caro. Come mai?

Perché per me è un premio al popolo palestinese, al quale non sempre si dedicano occasioni del genere. Sono felice che si sia pensato a loro.

Michel Khleifi, lei è considerato il pioniere del cinema palestinese. Quali sono le storie che si stanno raccontando in questo momento?

Dal 1970 al 1995 molti critici si sono occupati di me, mentre io dicevo loro: “Aspettate perché ci sarà un effetto ‘accumulo’, basta avere pazienza”. Ben presto questo momento è arrivato e oggi sono tanti, non solo i giovani uomini, ma anche le giovani donne, che fanno cinema in Palestina. Una scena sempre più popolata che ha cambiato l’approccio, perchè chi fa questo lavoro diventa più umile, diventiamo tutti più pazienti. E poi è cresciuta anche la dialettica nell’ambito del cinema.

Il suo cinema è un cinema indipendente. Quali le difficoltà di sostenerlo?

All’inizio, quando provi a fare cinema, quando provi a essere te stesso, a spiegare te stesso, sai che ci sono forze che ti possono remare contro. Ciò che, quindi, è molto importante sapere è come andare avanti, rimanendo liberi. Ovviamente, non è facile. Non è semplice per nessuno, non solo per Michel Khleifi.

Quando inizia esattamente il cinema palestinese? C’è una tradizione in tal senso nel suo Paese?

In realtà all’inizio si parlava di due fratelli, i Lama. Si dice che tra gli anni ’20 e ’30 dei giovani girassero con la loro videocamera e registrassero quel che vedevano. Pare che si fossero, poi, spostati al Cairo. Ce lo dicono gli storici, ma non ci sono documenti che lo attestano. Verso la fine degli anni ‘60, comincia a emergere l’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, e nasce un movimento di giovani che si cimenta in film di propaganda. Verso gli anni  ‘70, però, l’Olp inizia ad andare in crisi, così arrivano le Tv che esplorano anche altre zone di guerra, per esempio il Vietnam. Avendo mezzi più potenti, tirano fuori e producono documenti più efficaci di quelli dei giovani dell’Olp. Io, in quegli anni, ero un giovane studente che si chiedeva come fare film per comunicare e raggiungere le persone. E lo volevo fare al meglio.

Con “La leggenda dei tre gioielli” lei entra nella striscia di Gaza e ne diventa ancora di più testimone

Guardandomi attorno, quando ho cominciato questo mestiere, sapevo che quello che vedevo sarebbe stato tutto distrutto. Quindi mi ripromisi di registrare qualunque cosa, consapevole che sarebbe stato il passato. Volevo tenere traccia dei ricordi, di com’è vivere durante un’occupazione, di cosa ci si ricorda in quei frangenti. Lo faccio nel 1980 con il documentario Fertile Memories (Michel Khleifi l’ha presentato alle Giornate cinematografiche di Cartagine, dove vinse il premio come miglior film d’esordio, nda), girato tra Nazareth e Gerusalemme. Qui racconto la storia, ma anche la gioia, nel caso si possa vivere un tale sentimento in un contesto del genere, in quel posto e in quel momento. Poi, però, in questo film parlo dell’infanzia, dell’essere bambini durante l’occupazione. Quando filmavo immaginavo di essere il testimone di ciò che non sarebbe stato più. Ecco perché ripropongo le stesse immagini durante ognuna delle quattro stagioni.

Michel Khleifi sul set con uno dei suoi giovani attori

Lei documenta e quindi racconta ciò che ha visto e vede. Con che animo si approccia a una realtà che colpisce e offende non solo chi la vive?

Non si può scrivere spinti dalla collera. Una sceneggiatura ha bisogno di una riflessione. Certo, mi è capitato di filmare sull’onda delle emozioni, ma tendo a pensare molto prima di lanciare il ciak. Per quanto riguarda questo film, mi trovavo a Gaza e parlavo con il direttore di una scuola per rifugiati. Accanto a me c’era un ragazzino che, per tutto il tempo, mi chiedeva: “Sei con Fatah o con Hamas? Sei con Fatah o Hamas?”.  Mentre incalzava, mi chiedevo come fa un bambino a essere ossessionato da questa domanda. A quell’età dovrebbe giocare, sognare, immaginare, fare tutt’altro.

Bambini che chiedono semplicemente rassicurazioni…

Quando penso ai bambini e ai film che ho fatto, mi trovo a essere felice per il piccolo Michel, per il mio io faciullo che giocava senza scarpe e correva, correva, correva. Sono felice per lui di aver fatto questo film. Ovviamente i più piccoli avrebbero diritto di giocare e avere un’infanzia. Forse non tutti sanno che più del 40% dei morti in questo momento sono bambini, una cosa orribile. Una volta stavo girando un film, Canticle of Stone.  Alla fine delle riprese, l’attrice chiese di fare un giro con la macchina intorno a Gerusalemme. Guidavo io e davanti a me c’era un autobus israeliano. A un certo punto, vidi un uomo di circa 45 anni scendere e cominciare a schiaffeggiare, colpendolo molto forte, un bambino di 5 o 6 anni che era sulla strada. Sono immediatamente sceso dalla macchina e sono andato a chiedere a quest’uomo: “Ma che fai?”. E lui: “Ha tentato di tirarmi una pietra. L’ho fatto perché così lui impara che non deve permettersi questo perché, se no, da grande, diventerà un terrorista”. Allora io: “Ma no, invece, prendilo per mano, portalo dalla madre.  Se lo tratterai in maniera umana, la stessa mamma ti aiuterà e allora ti ascolterà”. Gli ebrei sono ossessionati dal fatto che noi siamo terroristi, pensano che siamo animali. Così, io, adesso, quando vado in giro per i festival, mi presento così: “Salve, io sono un animale, ma oggi, giusto perché ci siete voi, vi parlerò da essere umano”.

A cosa stiamo assistendo impotenti a Gaza in questo momento?

Stiamo vedendo l’introduzione di un genocidio più grande, perché frutto di una concezione che considera il nemico come il nulla. Quello su cui mi soffermo è l’umanità del nemico e la storia della società palestinese. Non ci può essere una società libera se non liberiamo le persone. Io cerco di farlo attraverso il cinema e i film che giro: metto al centro di quello che stiamo vivendo gli uomini, le donne, i bambini palestinesi, che forse non hanno capito del tutto ciò che li sta coinvolgendo.

Cosa vuol dire il ritorno di Trump per il mondo?

Rispondo da Nazareth. Avevo un amico, uno scrittore e pittore che oggi è morto. Tempo fa gli chiesi, non ricordo quale elezione degli Stati Uniti fosse, cosa ne pensasse e mi rispose: “Ti racconto una storia. Una giovane donna si era appena sposata e chiese a sua madre cosa dovesse indossare per la prima notte di nozze: “Qualcosa di rosso o di bianco?”. La madre le rispose che non ci sarebbe stata differenza. Il perché è immaginabile”. Noi palestinesi siamo così, analoga situazione. Io piango per il futuro perché penso che diventi tutto sempre più stupido, sempre più volgare. E non penso nemmeno che siano gli Stati Uniti il problema, è tutta l’umanità che sta vivendo una situazione di malessere e di malanno. Sono certo che non si potrà continuare così per molto perché, come ha detto lo scrittore francese Emmanuel Todd, mentre gli Stati Uniti all’inizio erano una soluzione per il mondo, adesso sono diventati un peso.

Molte le cose che stanno cambiando

Penso che la guerra in Medio Oriente sia una guerra all’interno della Casa Bianca, dove ci sono tante influenze che si contrastano. C’è, però, anche la presenza di Elon Musk. Credo che il punto sia che decideranno di disinvestire sulla guerra e di usare il denaro per alimentare sempre di più i viaggi spaziali. Questo ritirare del denaro prendendolo alla povera gente è chiaro che porterà dei cambiamenti inevitabili.

Di cosa abbiamo bisogno?

Nel futuro avremo bisogno di una rivoluzione etica o saremo sempre dominati. Negli ultimi vent’anni Israele ha mostrato al mondo democratico che ci può essere un fascismo democratico o una democrazia fascista. Chiaramente molti Paesi pensano: “Se lo fa Israele, perché non lo possiamo fare anche noi?”. E questo chiaramente è il più grande rischio, il pericolo che corriamo.

Israele diventa l’esempio per chi vuole seguire una strada di distruzione?

Ho visto qualche mese fa un documentario su Giovanni Falcone e mi è rimasta in mente la frase sulla mafia che, in quanto fenomeno, avrà una fine. Lo stesso per il sionismo, creato dagli umani, quindi, come tutte le cose a cui hanno dato vita gli umani, avrà una fine.

Michel Khleifi, lei pensa che potrà finire senza distruggere del tutto il popolo palestinese?

Noi siamo molto forti. Un grande poeta palestinese, Mahmoud Darwis,  ha detto che ora i palestinesi prendono la loro croce e la portano ovunque lungo le strade in guerra. Un altro poeta ha detto agli israeliani: “Ma come pensate di potere sopravvivere? Da una parte siete circondati. Avete iniziato una guerra in un oceano di fiamme”. Io dico che una rivoluzione radicale, etica, non può che essere pacifista perché non puoi e non devi essere cattivo come il tuo nemico. Loro non hanno più risorse, noi le abbiamo e possiamo immaginare il nostro domani. In questo senso penso di essere il futuro.

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