Diana Bracco

Io, filantropa, perché vedo che nel sociale il “non” fare ha un suo costo

di Giampaolo Cerri

Dal numero di VITA appena uscito, anticipiamo l'intervista all'industriale Diana Bracco, a capo del gruppo farmaceutico di famiglia. La sua fondazione è impegnata in progetti inclusivi e culturali. Bracco è una dei filantropi che parlano: gli altri sono Vincenzo Manes (Kme Group), Paolo Morerio (Fondazione Peppino Vismara), Alessandro Garrone (Erg), Chiara Boroli e Marcella Drago (De Agostini)

Dal numero di VITA e dedicato alle fondazioni di impresa, che potete acquistare nello store, anticipiamo l'intervista a Diana Bracco. Il numero verrà presentato venerdì 21 aprile alle 11,00 sui social sui nostri canali Facebook e di LinkedIn.

Diana Bracco è forse il volto femminile più noto dell’industria italiana. Lo è da tempo, oltre che per il gruppo familiare che guida, anche per i numerosi incarichi pubblici, nell’associazionismo di categoria (Federchimica e Assolombarda) in quello civico (Sodalitas) e nelle istituzioni (Expo 2015), ai quali non si è mai sottratta. L’espressione civil servant, nel suo caso, non è abusata. E per Bracco la filantropia non è certo una scoperta: da anni, con il gruppo prima e con la fondazione dal 2010, è una grande mecenate in campo culturale, della ricerca e del sociale.

Presidente, perché oggi un'imprenditrice decide di donare? È perché ormai si dà per scontato che un'impresa debba essere responsabile? O c'è dell'altro?

Oggi le imprese sono un soggetto sociale attivo e integrato; dei membri dinamici della comunità in cui operano. Le aziende familiari, di tutte le dimensioni, in particolare, sono indissolubilmente legate ai luoghi in cui hanno le loro radici e sono ormai diventate attori di un processo di valorizzazione e conservazione del patrimonio culturale del Paese. Per questo dico sempre che hanno un’anima. Fare impresa, fare filantropia, sono diventate facce della stessa medaglia. Un modo per tenere fede ai propri valori familiari e per restituire al territorio parte di ciò che si è ricevuto.

Anche perché lei, presidente, ha iniziato a occuparsi di responsabilità sociale quando questi temi non erano certo di moda…

Infatti. La sostenibilità sociale e la filantropia sono da sempre nel DNA del Gruppo Bracco. L’amore per la cultura si è trasmesso da mio nonno Elio, fondatore dell’azienda, dapprima a mio padre Fulvio, che è stato un imprenditore illuminato, e poi a me che, per tramandare questi valori alle nuove generazioni, ho creato, nel 2010, la Fondazione Bracco. Fulvio Bracco è stato un pioniere nel campo di quella che oggi si chiama responsabilità sociale d’impresa, con un’attenzione speciale verso i giovani che costituisce uno dei fil rouge dell’impegno di Bracco lungo tutto il corso della sua storia. A cominciare dalle borse di studio intitolate a sua madre “Nina Bracco Salata”: lanciate nel 1952 per sostenere ragazzi meritevoli, sono un po’ le “antenate” dei futuri progetti realizzati dal Gruppo e soprattutto dalla Fondazione, penso ad esempio al nostro “Diventerò” per talenti meritevoli.

C'è modo e modo di fare filantropia. Qualcuno si limita a erogare, lasciando al beneficiario la responsabilità di far bene. Altri donatori pretendono la misurazione dell'impatto. Come si regola Fondazione Bracco?

Abbiamo concepito fin dall’inizio la Fondazione come un ente che elabora progetti in partnership su temi di interesse, svolgendo un ruolo attivo nella preparazione e nella loro realizzazione concreta. Non vogliamo essere un semplice erogatore che sponsorizza progetti altrui. Questa è la ricetta che ci ha permesso di creare partnership solide e durature con grandi istituzioni come il Teatro Alla Scala e la sua Accademia, il Palazzo del Quirinale, il Museo Poldi Pezzoli, la National Gallery di Washington e tante altre. Inoltre abbiamo deciso di dotarci di un metodo che prevede strumenti gestionali atti a valutare i risultati di performance e l’impatto sociale dei progetti. Oggi il mecenatismo d’impresa e la filantropia, per ottenere dei grandi risultati devono sempre più imparare a fare rete. Occorre, infatti, creare network volti a potenziare l’impatto sociale di ogni singolo intervento, prima di tutto attraverso un coinvolgimento attivo e in prima persona nelle attività promosse, ma poi anche creando sinergie con altri enti, che portino a un arricchimento reciproco, in cui la specificità di ciascuno trovi la sua valorizzazione in una coralità virtuosa.

Che cosa vi guida nella scelta dei singoli progetti nelle aree – arte, scienza e sociale – che registrano la vostra azione?

La Fondazione, combinando saperi e discipline diverse, si propone di formare e diffondere espressioni della cultura, della scienza e dell’arte quali mezzi per il miglioramento della qualità della vita e della coesione sociale, con una specifica attenzione all’universo femminile e ai giovani. Nonostante la sua vocazione internazionale, la Fondazione in questi dieci anni ha sempre mantenuto un legame particolare con la Città di Milano. Con una particolare attenzione agli aspetti sociali e al tema della valorizzazione delle periferie urbane che è diventato una priorità assoluta. Dobbiamo essere infatti tutti consapevoli che se non si interviene nel tessuto urbano delle nostre periferie i problemi degenerano in modo drammatico, come testimonia la storia recente di tante metropoli europee. Esiste un costo del "non fare" nel sociale. Agendo in modo preventivo e inclusivo, si garantiscono accoglienza e opportunità ma anche un ritorno umano ed economico.

Come scegliete i partner del Terzo settore, quando li coinvolgete?

Ancora prima della nascita della Fondazione avevamo già creato un network di Centri psico-pedagogici a Lambrate e a Ceriano Laghetto (Mb), territori in cui siamo presenti, per aiutare gli studenti delle scuole afflitti da bullismo e disagio psicologico. Dal 2016, poi, Fondazione Bracco è impegnata in una delle periferie milanesi più multi-etniche, nel quartiere Gorizia di Baranzate (Mi), con il progetto Oltre i Margini. Il Comune di Baranzate è il secondo in Italia per concentrazione di migranti residenti (33% su 11mila abitanti), in rappresentanza di ben 72 etnie. Lì opera “La Rotonda”, in prima linea per rispondere alle esigenze di una comunità difficile. È un’iniziativa molto articolata basata sulle evidenti necessità e sull’isolamento del territorio. Il progetto è un modello di servizi per un territorio fragile, articolato in tre assi principali di attività: l’inclusione sociale tramite il lavoro (con la sartoria sociale “Fiori all’Occhiello”), la tutela della salute dei soggetti ai margini e il contrasto alla povertà educativa. Ma non ci siamo fermati qui. Ho voluto anche fare un importante investimento personale nella creazione di un luogo di inclusione e cura, lo spazio InOltre, per la partecipazione e l’imprenditorialità sociale a Baranzate. Abbiamo acquistato e ristrutturato un capannone che è diventato un’importante risorsa per fare un centro nella periferia. Un percorso di rigenerazione sociale basato su accoglienza, solidarietà e multiculturalità.

Quale futuro vede per la filantropia nel nostro Paese? Non ci sono certo gli incentivi della fiscalità statunitense e quindi molto poggia sulla sensibilità e la visione di chi guida le imprese. Cosa può sostenere l'attitudine di alcuni e sollecitare la coscienza di molti?

Nella mia esperienza posso dire che fare filantropia, aiutare chi aiuta i fragili e fare del bene crea valore aggiunto – per così dire – anche a livello personale. Ci si sente davvero persone migliori. Ecco perché, per sostenere la cultura, la famiglia Bracco non ha certo dovuto aspettare l’Art Bonus. Certo, gli incentivi fiscali sono molto importanti, ma soprattutto in Italia il vero segreto è il lavoro di squadra tra pubblico e privato. Delle imprese c’è bisogno perché non ci sono sufficienti risorse pubbliche per tutelare l’enorme patrimonio artistico italiano. Gli episodi di incuria sono purtroppo numerosi, e hanno origine nelle lungaggini burocratiche, nei particolarismi e nelle inefficienze della pubblica amministrazione. Per questo le imprese vanno coinvolte. Le istituzioni, tuttavia, non possono trattare le aziende come un mero “bancomat”, ma come effettivi partner di progetto. Alle imprese devono essere offerte certezze sui tempi di realizzazione dei progetti e garanzie sui benefici e sull’impatto reale.

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