«È una storia che ha stravolto il mio modo di interpretare il mondo»: così Massimo Vaggi sintetizza il suo “Kinshasa. Una storia di adozione”, da poco uscito per Interlinea edizioni. Un libro coraggioso per una storia incredibile, che ci riporta dentro uno dei periodi più difficili della recente storia delle adozioni internazionali, quel blocco deciso dalla Repubblica Democratica del Congo nel settembre 2013, che ha riguardato circa 130 bambini adottati da famiglie italiane. Massimo Vaggi è presidente di NOVA, uno degli otto enti autorizzati alle adozioni operativi in Repubblica Democratica del Congo. Casa Nova, nei mesi del blocco delle adozioni, ha accolto 16 bambini.
Il blocco della adozioni in RDC del settembre 2013, con quel che ne è poi conseguito, è stato argomento di molta cronaca, per molti mesi. Perché lei ha voluto tornarci dopo quattro anni e tornarci con la forma di un romanzo? Cosa vuole aggiungere con questo libro coraggioso alle cronache di quei mesi?
Un tentativo di ricostruire la verità. Kinshasa non è un libro-inchiesta, sia chiaro. Tuttavia ho ritenuto che raccontare una storia di questo tipo potesse contribuire a incrinare il muro di cattiva informazione, l’approccio superficiale e sensazionalistico che ha caratterizzato la discussione sull’adozione internazionale in questi ultimi anni. E che in particolare ha influenzato buona parte dell’opinione pubblica che percepisce in termini negativi l’azione degli enti – di tutti gli enti senza distinzione – che all’adozione internazionale devono accompagnare le coppie. Non penso che il nostro sia un mondo immacolato, non sono così sprovveduto, e diverse associazioni propongono prassi che non condivido affatto. Tuttavia ci sono molte, moltissime persone ben intenzionate, volontari, genitori adottivi, persone che possono sbagliare ma che sono tutt’altro rispetto a un’accozzaglia di “ladri di bambini”.
La prima domanda che sorge, leggendo, è… “ma è tutto vero?”. Il libro in forma di romanzo è un modo per dire la verità su quella vicenda, che altrimenti sarebbe stato più difficile dire?
Si, è tutto vero. Tranne, come scrivo in esordio, la partecipazione del protagonista maschile a quel viaggio. Ognuno usa gli strumenti che ha o che pensa di avere, e nel modo che immagina migliore per raccontare una storia. E quella del romanzo è una vicenda che ancora mi emoziona, quando ci penso. Credevo e credo che meritasse di essere raccontata in sé, e spero di essere riuscito a trasmettere una minima parte di quella forza e dei significati che ancora mi trasmette.
La vicenda è quella di due fratelli, adottati da due diverse famiglie italiane, che a un certo punto vengono “rapiti” – anche se questa non è la parola che è stata usata nel volantino diffuso per l’altopiano e per Kinshasa, né la parola che lei usa nel libro – da una zia di cui nessuno conosceva l’esistenza: come è possibile che sia accaduta una cosa del genere? Intendo entrambe le cose, che ci fosse una zia di cui nessun documento parlava e poi che lei una volta apparsa dal nulla abbia potuto prendere i bambini con sé. Peraltro la zia è una figura di cui alla fine si dice “l’eroe di questa storia è lei”…
Nella Repubblica Democratica del Congo non esiste un’anagrafe che si possa dire minimamente funzionante, per cui i bambini spesso non sono titolari nemmeno di quel fondamentale diritto che è quello di avere un nome, e chi, come loro, ha vissuto in strada per lunghi anni può non avere nessuna storia familiare da raccontare. Quanto alla possibilità che i servizi sociali riescano a ricostruire con sufficiente precisione i legami pregressi e attuali, cosa posso dire? Manca tutto per farlo: le persone, i soldi, perfino la percezione che si tratti di un’azione importante. E poi c’è la guerra, c’è una situazione politica esplosiva. La linea che separa il destino di un bambino abbandonato da quello, ad esempio, di un bambino smarrito, in Congo è così sottile che la realtà dell’abbandono spesso non si riesce a misurare con le carte, ma con la concreta durata della permanenza in istituto. Chi dopo due anni è ancora lì, in uno di quei posti spesso terrificanti, senza che nessuno si sia fatto vivo per cercarlo, è un bambino abbandonato e definitivamente perduto, senza nessuna speranza.
Ecco perché per fare adozioni in modo sereno dovevano essere gli enti a stimolare e in alcuni casi addirittura a realizzare le indagini sociali sulle origini del minore, ed ecco perché, ad esempio, noi non abbiamo mai fatto adozioni al di fuori di Kinshasa. Non voglio dire che fosse impossibile, ma solo che era troppo difficile, per noi, troppo al di là delle nostre forze e capacità. Non avremmo potuto garantire che quel bambino, ritrovato magari in una zona di guerra, fosse davvero un bambino abbandonato. A Kinshasa invece la situazione ci permetteva un controllo sufficiente: avevamo una struttura che svolgeva indagini sociali, abbiamo promosso la registrazione anagrafica, abbiamo collaborato con le strutture dei comuni e dove questa collaborazione non era possibile non abbiamo fatto adozioni. Scelta durissima, per chi ha visto come vivono (o non-vivono) i bambini, ma inevitabile. Così ci è anche capitato di aver ritrovato dei parenti di cui non si conosceva l’esistenza, anche se, alla fine dei conti, in un solo caso e proprio all’inizio della nostra esperienza si è trattato di un parente disponibile ad accogliere nella propria famiglia il minore. Si chiamava Exocé, quel bambino, come il piccolo nel romanzo.
In Congo la realtà dell’abbandono spesso non si riesce a misurare con le carte, ma con la concreta durata della permanenza in istituto. Chi dopo due anni è ancora lì, in uno di quei posti spesso terrificanti, senza che nessuno si sia fatto vivo per cercarlo, è un bambino abbandonato. Ecco perché per fare adozioni in modo sereno devono essere gli enti a stimolare e in alcuni casi addirittura a realizzare le indagini sociali sulle origini del minore, ed ecco perché, ad esempio, noi non abbiamo mai fatto adozioni al di fuori di Kinshasa
Massimo Vaggi
Nel caso della nostra storia, la “zia” sembra fosse realmente tale, ma di lei erano state smarrite le tracce perché abitava in un villaggio ben lontano dalla capitale e chi aveva portato i bambini in Istituto non ne aveva riferito l’esistenza. I piccoli, poi, erano davvero tali, e dopo oltre un anno e mezzo di permanenza nell’orfanotrofio nessuno li aveva cercati. D’altronde, anche quella stessa “zia” non si è certo presentata per prenderli e tenerli con sé, tant’è che non l’ha fatto. La sua intenzione era un’altra, ma vorrei lasciarla scoprire al lettore.
Certo è che in una sola notte quella donna, analfabeta, priva di ogni strumento culturale, che viveva in condizioni impossibili, con un marito che la picchiava regolarmente, ha saputo percorrere una strada di emancipazione e conoscenza che altri non hanno saputo percorrere in decenni, fino a capire quello che per lei era impensabile sino a poche ore prima: che si può amare incondizionatamente un figlio anche se non è nato da te e anche se ha un diverso colore della pelle. Dopo aver compiuto il suo gesto di generosità feroce, quella donna è ritornata nel nulla doloroso che la Storia e il destino le hanno riservato. Ogni tanto non posso che riservarle un pensiero, necessariamente un pensiero triste, di cui ovviamente non sa nulla.
Quanto alla domanda “come è stato possibile"?
Bisogna immaginare un Istituto dove 55 bambini vivono in condizioni estreme e dove ad accudirli in quel momento c’era una sola persona. Bisogna immaginare che questa persona sia un uomo di una semplicità disarmante, che non riceve alcuna retribuzione se non il vitto e l’alloggio. Bisogna immaginare una situazione in cui l’alternativa – ai suoi occhi – era scegliere se stare con i due piccoli e la “zia” oppure andare a comperare del riso per dare da mangiare qualcosa agli altri 53. Ha fatto quello che poteva, e cioè poco. E ai puristi che potrebbero storcere il naso dicendo: “così non è possibile, così è davvero troppo poco” suggerirei di praticare l’unica alternativa concreta, che è quella di andare a Kinshasa e fare di meglio. Oppure di non fare niente, il che equivale a caricare i 55 su un minibus per poi lasciarli, tutti insieme, in un mercato della capitale, perché tornino a essere quel che erano, cioè invisibili bambini di strada. Oggi in quell’istituto le condizioni di alloggio, di vita e di sicurezza sono radicalmente cambiate perché la nostra associazione è stata capace di cambiarle – e anche di questo racconto – ma ci sono voluti anni di lavoro e di cooperazione, oltre che soldi.
Raccontare – palesare – che questo sia accaduto, cosa implica rispetto al tema sempre caldo e che è stato caldissimo proprio sul Congo, della correttezza delle adozioni? Significa ammettere che ci sono situazioni nel mondo in cui non abbiamo certezza del fatto che i bambini siano veramente in stato di abbandono? O al contrario significa chiarire una volta per tutte che i bambini che arrivano all’adozione pur non essendo necessariamente orfani sono tuttavia realmente in stato di abbandono?
Significa riflettere sul fatto che il lavoro di un ente che voglia garantire trasparenza è difficilissimo. Una buona parte dei minori che arrivano in adozione non sono orfani ma bambini abbandonati, per cui il problema che si presenta è sempre lo stesso, quello di verificare la veridicità e definitività dello stato di abbandono. Intendo dire verificare la volontarietà dello stato di abbandono, la decisione consapevole dei genitori di non farsi carico del futuro di quel bambino. Altra cosa sono le ragioni concrete dell’abbandono. Si afferma che la povertà non può esserne un motivo. Verissimo: anche noi, nel nostro piccolo, cerchiamo prima di tutto di prevenire l’abbandono, con azioni di cooperazione, con i sostegni a distanza…. Ma oltre che verissimo è crudelmente astratto, perché la povertà e la conseguente frantumazione del tessuto sociale e familiare sono spesso la ragione prima, e non solo a Kinshasa, dell’abbandono.
Vede, l’alternativa per chi vuole fare adozioni ed essendo genitore adottivo le vuole fare al meglio, è quella di scegliere la certezza del diritto e delle prassi, e in quel caso conseguentemente adottare esclusivamente in Paesi non solo firmatari della Convenzione dell’Aja ma anche relativamente ricchi, dove la povertà gioca un ruolo relativo, come ad esempio quelli dell’America Latina (o in Svizzera? nel Liechtenstein? San Marino?) oppure di cercare di risponde all’emergenza, e allora si parla del resto del mondo. Nel primo caso fanno tutto gli Stati di origine, nel secondo l’ente si assumere una grande responsabilità, che deve svolgere con la massima attenzione e trasparenza, e in piena collaborazione, per quanto è possibile, con le autorità locali.
L'alternativa per chi vuole fare adozioni è quella di scegliere la certezza del diritto e delle prassi, e in quel caso conseguentemente adottare esclusivamente in Paesi non solo firmatari della Convenzione dell’Aja ma anche relativamente ricchi, dove la povertà gioca un ruolo relativo, come ad esempio quelli dell’America Latina (o in Svizzera? nel Liechtenstein? San Marino?) oppure di cercare di risponde all’emergenza, e allora si parla del resto del mondo
Il presidente dell’associazione di cui si parla nel romanzo, Stefano, appare provato da una vicenda in cui i contorni del giusto e dell’ingiusto sono difficili da distinguere. Lei, che è nella realtà il presidente dell'Associazione che tutto questo ha vissuto, a distanza di tempo, che giudizio dà di quella lunga e difficile vicenda?
È una vicenda che mi ha coinvolto personalmente. In quei tre anni ho trascorso del tempo a Kinshasa, compresi due viaggi nel novembredicembre del 2015 e nel gennaio 2016, per andare a prendere i primi 10 bambini ai quali le autorità avevano rilasciato il permesso di uscita dal Paese. È stata una vicenda infinita ma, siccome è passato del tempo e sono cambiate le persone, non ho nessuna intenzione di ritornare sulle durissime contrapposizioni e le polemiche infinite che hanno coinvolto gli enti e la Commissione Adozioni. Però ricordo un fatto: in quel periodo l’attenzione e l’indignazione dell’opinione pubblica e – di conseguenza – del mondo della politica è stato ripetutamente rivolto alla vicenda di due marò confinati all’interno dei locali dell’ambasciata italiana a Delhi. Mi sarebbe piaciuto che una parte di quell’attenzione di tutti noi, in Italia, fosse stata rivolta anche a 130 bambini connazionali – perché italiani erano, adottati da famiglie italiane – confinati all’interno di istituti in condizioni di sicurezza decisamente imparagonabili con quelle dell’ambasciata di Delhi. E ciò nonostante ricordo quel periodo, che è costato uno stress enorme a tutti i protagonisti, come l’esperienza migliore da presidente di questa Onlus che dirigo, e una delle più intense della mia vita.
Le famiglie di NOVA e i loro figli che hanno vissuto il blocco delle adozioni in RDC, oggi come stanno? Dei dolori del parto si dice che si dimenticano subito, le famiglie hanno dimenticato?
Non credo vogliano dimenticare. In quegli anni c’è stata una cosa che ci ha salvato: abbiamo mantenuto strettissimi i rapporti con tutte le famiglie che in Italia aspettavano, in questo aiutati anche dal fatto che avevamo raccolto i bambini all’interno di una struttura – CasaNova – da dove ogni settimana potevano vedere i loro genitori, pur se esclusivamente in collegamento skype. Le famiglie sono sempre state dalla nostra parte, abbiamo lavorato con loro in piena collaborazione e condivisione e quando la vicenda si è conclusa ci hanno indirizzato alcune lettere, poi pubblicate sul nostro sito, che confermano la totale sintonia e il legame indissolubile che si era creato con la nostra associazione. Alcuni di quei genitori sono oggi nostri volontari e alla festa NOVA tenutasi a Pistoia l’8 e 9 settembre ce n’era un buon numero. Venuti da Foggia, da Salerno, da Udine, da Treviso… A pranzo non ero seduto con il direttivo o con la mia famiglia, ma con loro e abbiamo riso come solo dei vecchi amici che si ritrovano dopo molto tempo possono fare. A fianco del nostro tavolo c’era quello dei bambini, che non si sono lasciati un solo secondo per tutti e due i giorni, e si presentano sempre come fossero un unico, bellissimo, indissolubile corpo. Sono famiglie, esattamente come le altre. Che però hanno alle spalle un’esperienza indimenticabile. Tutto questo è ricchezza. Come si dice? Dai diamanti non nasce niente….
Qualche parola merita anche la dedica, commovente, a Teresa, se “Teresa” è la donna che penso io, scomparsa dopo soli 82 giorni dall'arrivo di suo figlio…
Teresa è quella che pensa lei. Una delle due protagoniste della vicenda, quella che nelle pagine si chiama appunto Teresa, mi ha detto che è stata felice di questa scelta. Teresa è stata una donna che ha aspettato tre anni per vedere suo figlio e alla quale tra l’altro è stata negata la possibilità di stare con lui un mese in più di quanto sia stata, perché è scomparsa dopo poche settimane dall’arrivo del bambino. Il bambino poteva venire in Italia in dicembre ma non c’è stata autorizzazione all’ingresso fino al 16 gennaio. Un mese è niente? Forse, però bisognerebbe avere la possibilità di chiederlo a lei, a Teresa.
Foto archivio NOVA, per gentile concessione di Massimo Vaggi
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Cara lettrice, caro lettore: il 25 e 26 ottobre alla Fabbrica del Vapore di Milano, VITA festeggerà i suoi primi 30 anni con il titolo “E noi come vivremo?”. Un evento aperto a tutti, non per celebrare l’anniversario, ma per tracciare insieme a voi e ai tanti amici che parteciperanno nuovi futuri possibili.