Khady Sene

La prima direttrice Caritas africana (ancora senza cittadinanza): «L’impegno sociale è la mia ragione di vita»

di Cristina Giudici

Prima di diventare responsabile della Caritas di Foggia-Bovino, è stata volontaria e poi operatrice sociale, occupandosi anche di caporalato e del rapporto con i lavoratori nei ghetti. Il referendum? «Spero vadano a votare in molti»

Ride e sorride sempre, senza mai perdere di vista quanto accade attorno a lei. Ride perché è una giovane donna di 32 anni arrivata dal Senegal per studiare ed emanciparsi, grata per avercela fatta. Sorride perché la sua empatia le permette di dialogare con tutte le persone in difficoltà, indipendentemente dal loro background. Khady Sene è l’unica direttrice di una Caritas diocesana che arriva dall’Africa. Nominata nel settembre scorso dall’arcivescovo Giorgio Ferretti per dare un segnale forte e chiaro sulla sfida della Chiesa che deve stare accanto ai fragili e includere le nuove generazioni con origini straniere. Alta, spalle larghe che hanno sostenuto il fardello di essere stata orfana di madre a 13 anni, è arrivata in Italia in modo legale, a bordo di un aeroplano, nel 2012.

L’abbiamo incontrata davanti alla cattedrale di Foggia. Una città raccontata soprattutto per episodi criminosi, la presenza della quarta mafia, il caporalato, i ghetti e lo sfruttamento dei braccianti stranieri. E invece la sua storia ci insegna ad andare sempre oltre gli stereotipi. «Sono venuta in Italia perché volevo studiare e perché volevo essere libera», ci ha spiegato dopo che si è insediato il pontificato di Papa Leone XIV anche se per lei resterà indelebile l’istante in cui Papa Francesco le appoggiò le mani sulla fronte per darle la benedizione, accendendole il cuore.

Prima di diventare responsabile della Caritas di Foggia-Bovino, è stata volontaria e poi operatrice sociale, occupandosi anche del rapporto con i lavoratori nei ghetti.  «Ho conosciuto tutte le sofferenze dei migranti che arrivano sui barconi solo dopo essere arrivata in Italia», ci dice con un’espressione grave. E infatti dopo essere entrata la prima volta in un ghetto, non è riuscita a dormire nel suo letto per una settimana e ha preferito restare sul tappeto perché pensava ai suoi fratelli africani che vivevano e vivono in condizioni disumane. «Non sono solo stranieri», precisa. «Ci sono molti giovani foggiani sfruttati nei campi».

In Italia ha dovuto ripetere gli studi per il diploma ottenuto in Senegal perché nel suo Paese d’adozione non le è stato riconosciuto il titolo. Come non le è ancora stata riconosciuta la cittadinanza italiana che ha chiesto. Voleva diventare medico e invece ha deciso di iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza. «Sono un’attivista e credo che sia importante imparare cosa sia il diritto, le leggi che dobbiamo affermare per promuovere l’inclusione di chiunque sia in difficoltà. Mi sono iscritta all’università anche per tutte quelle persone che si affidano a me e hanno bisogno di una guida che abbia delle competenze», ci ha raccontato durante il nostro incontro. Fidanzata con un medico, si sente una foggiana doc. «Ho conosciuto la Foggia che accoglie e include. E voglio restituire l’amore che ho ricevuto. Per chi viene da fuori Foggia può sembrare una città chiusa ma in realtà non lo è. Esiste una parte della città che quando qualcuno chiede aiuto, risponde», afferma con decisione.

Khady Sene sa di rappresentare un emblema dell’inclusione e di poter costruire un ponte. Infatti alla festa per la sua nomina, nel settembre scorso, sono venuti anche i lavoratori agricoli stranieri di Borgo Mezzanone – una baraccopoli definita con un eufemismo un insediamento informale – per unirsi alla sua gioia. Del resto è stata lei che ha seguito il caso di Kemo, il giovane bracciante gambiano colpito da una pietra lanciata da un’auto il 23 luglio 2019. Kemo è stato curato e poi assunto da una impresa agricola ma per gli altri bisogna continuare a lavorare per il superamento dei ghetti, come ha ricordato più volte l’Arcivescovo Ferretti dopo il suo insediamento a Foggia: «Non sono tornato dall’Africa per trovare la schiavitù in Italia». Anche per questo motivo è importante che a guidare la Caritas ci sia una giovane donna nata in Senegal che segni una svolta e un cambiamento culturale.

«Mi piace pensare di essere un esempio che possa ispirare altri stranieri, altre donne che ancora non sono riuscite a emanciparsi». Khady Sene non ha tanta voglia oggi di rievocare quanto lungo sia stato il cammino per arrivare fino a qui, con tanta strada nei suoi sandali per parafrasare la strofa di una bellissima canzone di Paolo Conte che forse rende l’idea della sofferenza che si è lasciata alle spalle. Oggi preferisce focalizzarsi sul cambiamento, sulla possibilità di ogni essere umano di cambiare la rotta del proprio destino. Khady ci ha detto di non aver mai pensato di poter avere una posizione di rilievo nella Caritas che per lei è sempre stata il luogo dove portare avanti una missione evangelica come volontaria e operatrice. «So di dover dare una riposta a tutti i diocesani e trasmettere il messaggio di speranza perché si può cadere ma poi ci si può rialzare con l’aiuto di una comunità», riflette. Ogni volta che può, mentre parliamo, ringrazia l’arcivescovo “mezzo africano” -un dono di Papa Francesco- e ha una visione chiara di quello che possono fare la Diocesi e la Caritas in una città che si trova isolata, al centro del Tavoliere, dove soffia sempre il vento. Sì, perché nominare una giovane donna che è arrivata dall’Africa rappresenta un gesto simbolico per mostrare ai suoi fratelli e sorelle arrivati dallo stesso continente che la speranza non è solo un anelito ma una possibilità reale di riscatto.

Khady Sene sa bene quanto sia pressante essere considerata una figura esemplare. Forse, al netto delle questioni pratiche e i progetti che deve gestire come presidente della Caritas, nella sua nomina c’è soprattutto un segnale: la potenza dell’immedesimazione da parte dei fragili. «Accadeva anche quando lavoravo allo sportello immigrazione della Caritas ma ora posso favorire ulteriormente il dialogo insieme alla comunità diocesana. Avendo un ruolo dirigenziale, devo pensare a coordinare progetti e mi manca la possibilità di essere in prima linea come lo ero prima. Per questo motivo cerco di essere sempre a disposizione di tutti: voglio continuare a stare in mezzo alla gente e trasmettere fiducia nel futuro». Nella giornata internazionale della donna, l’8 marzo scorso, Khady Sene ha ricevuto il Premio donna per la pace dal Comune Monteleone di Puglia. La sua storia è una lezione per tutte quelle metropoli, a cominciare da Milano, che si rappresentano come inclusive. La sua nomina, oltre che essere applaudita, dovrebbe essere valorizzata e soprattutto esportata nel resto del Paese dove i cittadini l’8 e il 9 giugno potranno votare al referendum sulla cittadinanza per chi, come lei, lavora ogni giorno per favorire l’inclusione ma non ha ancora i diritti dei suoi conterranei, italiani per diritto. «Mi auguro che ci sia molta partecipazione al voto del referendum», ci dice prima di scappare via al suo prossimo impegno. Una decisa presa di posizione per lei che è arrivata fino alla direzione della Caritas e alla facoltà di Giurisprudenza grazie all’aiuto di tanti avvocati che l’hanno affiancata. E aspetta di essere convocata per poter giurare prima o poi sulla Costituzione italiana. 

Nella foto: Khady Sene, l’unica direttrice di una Caritas diocesana che arriva dall’Africa

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