Dici Scampia e pensi alle Vele, pensi a Gomorra, alla droga, alla camorra, ovviamente. Poi nelle Vele ci entri, quella celeste – o almeno quella che una volta era celeste – una delle ultime 3 rimaste (4 di questi edifici sono stati demoliti tra il 1997 e il 2020 ndr) e ti ritrovi una ragazza dai capelli biondi scintillanti, carnosa, con una pelliccia chiara (finta) che le avvolge tutto il corpo, mentre improvvisa uno spettacolo di musica neomelodica napoletana, che uscita dalla sua bocca però sembra lirica. Canta su un ballatoio arrugginito del primo piano con le pareti scrostate di questa vela, che tra poco cadrà come le atre. Un pubblico ristretto di donne e bambini – “e comm si brav” – le urlano, in visibilio per la performance alle tre di un pomeriggio qualunque.
Scampia è il luogo delle aspettative tradite. Agli inizi degli anni Settanta qui doveva nascere il sogno della media borghesia napoletana. Si costruivano i primi parchi privati, lontano dal caos del centro della città, il verde attorno, la prospettiva di qualcosa di bello, dove la bellezza non è dirompete, ma serena. Ma nell’Ottanta il terremoto in Irpina ha segnato l’inizio delle scelte politiche sbagliate. Furono edificate strutture in piena emergenza post-terremoto, c’era bisogno di case per gli sfollati. Quelle scelte hanno lasciato spazio alla Camorra. Sono poco meno di 41mila gli abitanti residenti, una stima al ribasso. A loro si aggiungono le migliaia di famiglie che, in mancanza di alternative occupano le case, e una consistente comunità Rom che vive in un campo costruito nel quartiere. Scampia è il luogo delle aspettative tradite perché le Vele non dovevano essere le vele, roccaforte della droga con le vedette sui palazzi. Le “case dei Puffi" nel lotto P, fatte di amianto e che oggi cadono a pezzi – come gran parte del quartiere – dovevano essere provvisorie, per tamponare l’emergenza, invece poi sono diventate l’emergenza.
A Scampia non c’è mai stato un cinema, un parrucchiere, un negozio che vende scarpe. Vicina al centro di Napoli ma abbastanza lontana da disegnarne i contorni a Nord. Le strade larghe, le vie di accesso alle autostrade veloci. A Scampia non c’era un supermercato, così la camorra ha aperto quello della droga: c’erano 25 piazze di spaccio. Il quartiere è stato profondamente segnato dalla prima faida di Secondigliano. Una guerra di camorra tra i Di Lauro e gli “scissionisti”. Mentre si ammazzavano tra loro i colpi di proiettili vacanti hanno ucciso anche ragazze e ragazzi del quartiere, vittime innocenti. Ma che cos’è Scampia oggi? Dopo la faida Scampia è iniziata a cambiare, gli abitanti hanno detto basta. In questo pezzo di Napoli, che lega il centro della città all’hinterland, sono le persone che fanno la differenza.
Oggi le piazze di spaccio sono poche, la Camorra ha lasciato spazio all’abbandono. A rimanere è l’emergenza abitativa, la povertà estrema, di quella che non metti insieme il pranzo con la cena, a rimanere – prepotente – è lo stigma su un quartiere e i suoi abitanti. Eppure questo è il quartiere dove non importa chi sei, cosa hai fatto prima, conta solo di cosa hai bisogno adesso. E infatti, negli ultimi 10 anni, è diventato il quartiere con la densità associativa – 32 tra cooperative, imprese sociali, centri diurni, associazioni di volontariato – più alta di tutta la città. E ognuna di queste realtà è nata da persone che a Scampia non solo ci vivono, ma proprio la vivono, ne parlano la stessa lingua, anche se non sempre è una lingua facile.
È grazie al loro lavoro che «la camorra non è più il modello vincente, non conviene schierarsi con lei», racconta Ciro Corona. Che ammette: «Io potevo essere uno di loro. Se nasci a Scampia, o scappi o ti schieri con la camorra. Ma se né scappi, né ti schieri allora scegli di resistere sul territorio per cambiarlo». Corona è tra le 36 onorificenze al Merito della Repubblica con cui il Presidente Mattarella ha premiato gli italiani che hanno speso le loro vite per la solidarietà, il volontariato, l’inclusione sociale. Resistenza per lui ha voluto dire far nascere l’associazione (R)esistenza Anticamorra, di cui oggi è presidente.
Corona lavora con i minori a rischio. «Cerchiamo di dare modelli educativi sani alternativi a ragazzi che crescono mitizzando i boss di quartiere e che non hanno scambi culturali e confronti estranei al ghetto». La sede dell’associazione è l’officina delle culture Gelsomina Verde, attaccata al Lotto P. I ragazzi lo fermano, gli sorridono, “Cerù t’appost?”, “tutto bene, Ciro?”, gli chiedono. «Quando siamo arrivati qua dentro», continua, «abbiamo raccolto 45 bidoni di siringhe e 12 camion della spazzatura. Abbiamo spalato fango, vomito, escrementi. Oggi il centro ospita altre 15 realtà. Una palestra, un bar, la sala computer. Prima del Covid passavano in media 400 persone al giorno e c’è una biblioteca. La prima volta che ci è entrato un ragazzo veramente difficile da trascinare fuori dai cattivi giri, ha guardato i libri, poi ha guardato me: “Allor pozzo sunnà pur io?”, che tradotto vuol dire “Allora posso sognare anch’io?”».
Le associazioni qui sono «dei semi che possono germogliare se trovano un terreno fertile»: a dirlo Barbara Pierro, presidente dell’associazione Chi Rom e Chi no. «La politica deve valorizzare e amplificare quello che noi stiamo già facendo». E Scampia che sembra un ghetto, con le strade larghe, i palazzi grigi, tanto fertile lo è davvero: dall’impresa sociale la Kumpania che nel quartiere gestisce il primo ristorante dove lavorano donne rom e napoletane, allo storico centro sociale GRIDAS o al Centro territoriale Mammut.
E ancora il centro Hurtado, le cooperative sociali la Roccia, Obiettivo Uomo e l’Uomo e il Legno. Il comitato Vele, l’associazione Vo.di.Sca. (Voci di Scampia) di Rosario Esposito La Rossa e Maddalena Stornaiuolo che hanno rilevato il marchio della storica casa editrice napoletana Marotta&Cafiero e spostato la sede da Posillipo a Scampia.
L’associazione Arrevutammo o quella cittadina de I pollici verdi, la “Star Judo Club Napoli” di Gianni Maddaloni (padre dell’oro olimpico Pino), una palestra che accoglie tutti: ragazzi con disabilità, detenuti, i “difficili” che non hanno una guida. «Non uso la cintura nera, ma quella della pace. Lo sport è pace, non è guerra», racconta Maddaloni. “È chiaro questo?”, “Mi sono spiegato?”. Gianni Maddaloni lo ripete alle fine di ogni frase. Quelle domande scandite bene, dette piano, assomigliano ad una richiesta sincera di mettersi dalla parte della comprensione. Ti sta chiedendo di lasciare a casa i giudizi, e soprattutto i pregiudizi, e guardare le cose per come sono, né meglio, né peggio. Difficili e non scontate, difficili ma con un’umanità che le attraversa. «Sono nato in questo quartiere», continua. «Avevo due anni e già eravamo obbligati a scendere giù in strada: eravamo 8 figli in una casa popolare di 50metri quadrati.
Prima dell’inizio delle pandemia la palestra accoglieva 600 ragazzi. Non lascerei mai Scampia», dice. «In questo quartiere non c’è ragazzo che non abbia il papà in carcere. E allora senza opportunità quante possibilità ha quel bambino di diventare un uomo onesto? Lo sport è un’opportunità che io posso dare».
Che i padri, i mariti, gli zii, i fratelli grandi, siano per lo più detenuti è vero. «Scampia lo mandano avanti le donne», racconta Patrizia Palumbo, presidente dell’Associazione Dream Team – donne in rete. Dream Team gestisce uno sportello di accoglienza, ascolto, orientamento al lavoro, accompagnamento psicologico e primo ascolto legale rivolto alle donne dell’area nord di Napoli, è inoltre, centro antiviolenza. «Oggi le donne chiedono riscatto. È un territorio al femminile il nostro. Sono loro che si occupano della crescita dei figli, dell’accudimento degli anziani, lavorano tanto, lavorano in nero. Le vedi che partono da qua e vanno nei quartieri bene della città per fare le donne delle pulizie. Le vedi come si armano: piene, sorridenti, credono di fare l’ordinario e invece fanno lo straordinario».
E qui straordinario è la parola vera. Nonostante l’emergenza abitativa, la povertà estrema, nonostante lo stigma prepotente su un quartiere e i suoi abitanti, c’è un umano davvero troppo umano.
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