Dove va la sostenibilità? Risponde Eric Ezechieli

Lo sviluppo sostenibile non basta più, le aziende devono rigenerare

di Nicola Varcasia

È il cofondatore di Nativa, la prima società Bcorp in Italia e benefit in Europa. Chi meglio di lui, allora, per capire meglio affinità e differenze tra i due modelli di sostenibilità imprenditoriale che, numeri alla mano, sono ancora agli inizi? Ma, di fronte a un’Europa che arretra, quello che conta è la visione: gli unici business che dovrebbero prosperare secondo lui sono quelli che, non solo si adattano al contesto ambientale e sociale in cui operano, senza degradarlo, ma addirittura contribuiscono a migliorarlo. La storia, in questo senso, è ancora tutta da scrivere.

Profit o non profit, è questo il problema? La conversazione con Eric Ezechieli parte da un dilemma dal vago sapore shakespeariano per poi abbracciare lo scibile in fatto di imprese e sostenibilità. La sua storia comincia a Morbegno, in Valtellina, quando papà Sansone e mamma Maria, entrambi medici, lo hanno educato a immaginare un mondo in cui la cura delle persone e dell’ambiente fossero le due priorità naturali. Poi, studiando all’università, l’amara sorpresa che ben altre teorie abitano il mondo economico e che la logica del puro profitto vince quasi ovunque. Salvo essere rinfrescata con sporadiche e poco credibili “conversioni”, nello stile della celebre lettera di Larry Fink, ceo di Black Rock, sul purpose. L’inevitabile e, questo sì, naturale, “bisogna fare qualcosa” del giovane Eric ha coinciso con un periodo di approfondimenti anche in America, l’introduzione delle società benefit in Italia e la creazione di Nativa, organizzazione che accompagna le aziende verso uno sviluppo sostenibile.

Ezechieli, nel mondo attuale ha ancora senso l’idea di trasformare i nostri modelli economici superando la polarizzazione tra profit e non profit?

C’è qualcosa di straordinariamente valido da prendere, sia da una parte che dall’altra. Riuscire a mettere insieme in modo virtuoso questi mondi significa trarne beneficio tutti, generazioni presenti e future.

Come?

L’idea di unire i punti di forza di entrambe le prospettive, stemperando limite ed effetti collaterali di entrambe, è stato il motore all’origine di Nativa e della proposizione anche in Italia del concetto di benefit. Una prospettiva che avevamo studiato anni prima con Paolo Di Cesare (cofondatore di Nativa, ndr) e che ci è servita da prototipo per un nuovo modello di impresa.

Come stanno oggi le benefit? Non di rado emergono critiche sul fatto che, ad esempio, non tutte redigono il bilancio di sostenibilità senza che questa mancanza vada incontro a sanzioni.

Con le benefit, stiamo sperimentando un modello nuovo che, come tale, va osservato, curato e seguito. Occorre la voglia di approfondire e l’onestà intellettuale per valutare i singoli aspetti di ciò che funziona, o meno, senza stroncare un intero movimento in modo anche distorsivo.

Riassumiamo un po’ la storia. Fondando Nativa, vi siete richiamati alle benefit corporation, introdotte negli Stati Uniti, in Maryland, nel 2010. Perché è così importante questo passaggio?

È stata una rivoluzione epocale. Come sappiamo, l’unico scopo contemplato dal Codice civile per una società di capitali era quello di produrre dividendi da distribuire ai soci. Invece, proprio nell’America del fordismo, un gruppo di imprenditori ha voluto cambiare il sistema operativo, introducendo una nuova legislazione che proteggesse quel management deciso a creare valore anche per altri stakeholder – la società, le persone e le generazioni future – senza subire la “ferocia” degli azionisti.

In Italia è toccato a voi tentare il colpo.

Nel 2012 cercammo di registrare Nativa alla Camera di Commercio di Milano, spiegando che il suo oggetto sociale era quello di accelerare la transizione da modelli estrattivi a modelli rigenerativi e di creare valore a beneficio anche per gli altri stakeholder. Però lo statuto venne respinto per quattro volte di seguito.

Perché?

Da un lato, il Codice civile non consentiva questa specifica destinazione d’impresa e, dall’altro, noi non intendevamo stralciare pezzi dello statuto che avevamo presentato.

Com’è andata a finire?

Fu accettato con riserva, forse per sfinimento dagli operatori camerali. Con l’avvertenza che in caso di contestazioni si sarebbero aperti dei problemi. Questo ci portò a metterci in contatto con Mauro Del Barba (parlamentare, presidente di Assobenefit fino a poche settimane fa, oggi guidata da Marco Morganti, che ha avviato questo ciclo di interviste, ndr). Con l’aiuto di Mauro mettemmo a punto la proposta che ha portato, tra tante difficoltà, all’introduzione delle società benefit, con la Legge di stabilità del 2015 e l’entrata in vigore nel 2016.

Come vanno le cose dopo quasi dieci anni?

Diventare benefit non è un risultato, ma un impegno e una protezione per il management di un’azienda che vuole operare in una direzione diversa. Viene cambiato il mandato che l’azionista assegna a chi la guida. Come questo mandato venga interpretato è l’esperimento che stiamo iniziando a misurare. Una novità che stava per essere bloccata sul nascere ora viene promossa ai massimi livelli. Circa tre mesi fa, il ministro Urso ha indicato il modello benefit come il futuro del Made in Italy.

I numeri?

Da Nativa, che è stata un po’ il paziente zero, ci sono voluti quattro anni per arrivare alle prime 400 società benefit, nel 2025 ci stiamo avvicinando alle 5mila. Il fatturato complessivo è di oltre 60 miliardi di euro con 220mila persone occupate. Sono tutte aziende virtuose che salvano il mondo? Probabilmente no. Sono tutte aziende che hanno esplicitato questo diverso mandato al management? Assolutamente sì. Si è creato un nuovo terreno di gioco.

Nella prima puntata di questo ciclo di interviste su dove va la sostenibilità, il neopresidente di Assobenefit, Marco Morganti, ha fatto notare che le Bcorp, «partite con il vento in poppa e con grandi squilli di tromba, in Italia si sono fermate a un numero esiguo», lei cosa ne pensa?

Il modello delle società benefit e quello delle Bcorp si integrano in modo armonioso, avendo un’origine comune ed essendo stati concepiti come strumenti utili per realizzare un’evoluzione sistemica. Naturalmente il processo per qualificarsi come Bcorp è molto selettivo, il che si riflette anche nel numero di aziende che fanno parte del movimento, se ne contano comunque oltre 10mila nel mondo. In Italia tutte le Bcorp sono anche società benefit, spesso tra le più iconiche, e vista la convergenza fortissima di valori e obiettivi tra Bcorp e società benefit ci sono sicuramente le condizioni per sviluppare e rafforzare le sinergie tra questi ecosistemi.

Può chiarire meglio la differenza tra le società benefit e le Bcorp?

Essere una società benefit significa adottare la nuova forma giuridica introdotta nel 2016 in Italia e prima ancora, con denominazioni simili, in America latina. Significa inserire nello statuto aziendale delle chiare finalità sociali e ambientali nel perseguimento del business. Bcorp è uno strumento privato, nato nel 2005, quando non esistevano standard di sostenibilità e in pochi si preoccupavano di vedere oltre il risultato economico, almeno nel mondo classico del business.

Da dove sono partiti Bill Clark e compagni?

Dalla creazione di nuovi standard di misurazione per la cura delle persone, della comunità e dell’ambiente. Si è arrivati a un benchmark piuttosto stringente con cui chi voleva ottenere la certificazione Bcorp si doveva confrontare. Nel tempo sono arrivati nuovi protocolli e proprio recentemente sono stati pubblicati i nuovi standard dopo un lavoro durato quattro anni.

Quindi Bcorp e società benefit sono sempre andate di pari passo?

Sì, anche se continuano ad essere due cose differenti. Le Bcorp – promosse in Italia da Blab, di cui Nativa è stata country partner – si confrontano con standard rigorosi di sostenibilità, ad esempio sullo stakeholder engagement o la governance. Nel mondo ci sono inoltre gruppi e movimenti, di cui Nativa ha fatto parte, che lavorano per introdurre e diffondere nell’ordinamento un uno stato la nuova forma giuridica di società benefit/benefit corporation. Oggi è presente in 38 Stati degli Stati Uniti e in oltre dieci Paesi nel mondo. Inoltre, in tanti altri è in corso l’iter legislativo per l’approvazione di una legge ad hoc.

Ci sono vincoli reciproci?

Gli standard per diventare Bcorp sono molto severi e impongono l’adozione dello status di società benefit se questi è previsto nel paese in cui ci si trova. Però, si può essere una società benefit senza necessariamente diventare Bcorp.

Rispetto a quello che sta succedendo in Europa sulla normativa per la sostenibilità (Csddd, Csrd, eccetera), come si pongono le società benefit?

La prenderei un po’ più alla lontana.

Prego.

Quello della sostenibilità è un discorso di prospettiva, in cui le norme, per quanto importanti – e per le benefit lo sono, eccome – sono comunque un tassello. Personalmente, poi, il discorso parte da ancora più lontano.

Quando?

Sono appassionato di questi temi dall’età di 15 anni, quando mi sono imbattuto nel libro scritto da un team di ricercatori del Mit di Boston dal titolo Limits to growth, tragicamente tradotto in italiano con I limiti dello sviluppo, anziché della crescita, come andava fatto. Sono anche cresciuto in famiglia con due genitori medici. Perciò, fin dall’infanzia non sentivo parlare d’altro che come curare le persone.

Che cosa ha significato questo per lei?

Il legame tra il vivere, il lavorare, il guadagnare e l’impegno per il luogo in cui si abita non è mai stato qualcosa di nuovo. Constatare che le cose non stavano così per tutti è stata la scintilla iniziale che, poi, con gli studi e le prime esperienze professionali, si è consolidata.

Torniamo alla differenza tra sviluppo e crescita.

Sintetizzo questioni ben note. Sappiamo che il nostro pianeta è come un corpo. Si sviluppa continuamente, ma non può crescere senza limiti. Ha una fisiologia e un equilibrio da rispettare. Il nostro modello economico, invece, presuppone non solo uno sviluppo potenzialmente infinito, ma anche una crescita indefinita. Il che è innaturale e implica la distruzione delle risorse prima che si rigenerino. Da ragazzo pensavo che questa fosse un’ovvietà, vederlo scritto nel libro del Mit me lo confermava. Ma, poi, studiando alla Bocconi, mi è stato chiaro che “vinceva” sempre la massimizzazione del profitto.

Che cos’ha fatto prima di avviare Nativa?

Dopo la Bocconi, sono stato un paio d’anni all’Università di Stanford, in California, per approfondire i temi dell’innovazione sostenibile. Neanche lì esisteva ancora un corso codificato su questo. Ho rintracciato i massimi esperti al mondo che se ne occupavano, cercando basi scientifiche e di business molto solide. Con poca ideologia e molto pragmatismo.

Poi?

Nel 2010, ho passato un periodo in Silicon valley, presso la Singolarity university, per provare a comprendere anche l’impatto dell’accelerazione tecnologica in atto e di cui oggi vediamo gli effetti con l’Ai e non solo. La domanda di fondo era sempre la stessa: come mettere insieme in maniera intelligente un sistema economico con i sistemi naturali?

Facendo un balzo, più o meno all’improvviso, arriva un certo Larry Fink

Con l’ormai famosa lettera agli investitori, il ceo di Black Rock avvisava la svolta del purpose, innescando quella che si è rivelata essere la bolla Esg – Environmental social e governance. Il livello di comprensione di cosa implicasse realmente quella sigla era bassissimo e infatti è stata usata più come leva di marketing che di reale cambiamento. Chi si occupava di questo con un minimo di competenza osservava il fenomeno con disincanto.

Arriviamo all’oggi…

Espulsa la bolla, occorre riprendere la strada verso lo sviluppo sostenibile, meglio ancora, verso la rigenerazione. Noi crediamo che gli unici business che dovrebbero prosperare sono quelli che non solo si adattano al contesto ambientale e sociale in cui operano, senza degradarlo, ma addirittura contribuiscono a migliorarlo e rigenerarlo. Lo status giuridico delle società benefit serve a orientare le aziende in questa direzione. Indipendentemente, per chiudere il cerchio, da quanti anni ancora l’Europa rinvierà la Csrd o la Csddd.

Che cosa fa oggi Nativa?

Il nostro obiettivo è aiutare le aziende a evolvere a 360 gradi. Partendo da un piano strategico di lungo termine e di evoluzione, lavoriamo con l’azienda su tematiche specifiche.

Ad esempio?

L’evoluzione del prodotto, per cui ci chiediamo come evolvere in ottica di sostenibilità. In particolare, siamo anche specializzati sul tema della biodiversità e dell’impronta carbonica. Abbiamo creato anche delle business unit dedicate agli aspetti della comunicazione sui temi di sostenibilità e di miglioramento degli spazi in ottica di green building. Lavoriamo con tante aziende sia per gli stabilimenti produttivi sia per il benessere delle persone. Infine, abbiamo lanciato una scuola di sostenibilità per i professionisti del settore.

Qual è il rischio più grande che stanno correndo oggi le aziende interessate alla sostenibilità?

Dopo un periodo di forte espansione del greenwashing, oggi vediamo l’effetto contrario. In gergo è il greenhushing, ossia le aziende, intendo anche quelle serie, per evitare problemi, evitano di dire quello che stanno facendo. Anche su questo occorre attivarsi.

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In apertura, Eric Ezechieli, foto da ufficio stampa Nativa

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