Dove va la sostenibilità? Risponde Giulio Buciuni

Milano si salva creando valore anche altrove

di Nicola Varcasia

Per evitare che le “città superstar” continuino a inglobare talenti, risorse e investimenti restituendo meno di quel che prendono, l’unica strada è tenere vivi gli altri territori. Anche con una nuova industria capace di uno sguardo sociale. In Italia come in Europa. È questo che Trump ci invidia. Giulio Buciuni, docente al Trinity College di Dublino, è dovuto andare a insegnare in Irlanda per approfondire queste prospettive, ma i casi più belli li ha trovati in Italia

Dici sostenibilità e pensi subito all’automotive. Cioè alle scelte calate dall’alto che l’Europa ha imposto a un settore chiave del suo tessuto industriale e che si è tradotto in un giogo per tante imprese. Con questo vizio originale in pancia, vai poi a spiegare alla gente che l’impianto complessivo di tutto ciò che ruota attorno alla sostenibilità – dalla finanza alle regole sulla rendicontazione fino ai progetti trasformativi dell’economia – non è soltanto una struttura di lacrime e costi. Ma un’opportunità per rilanciare le aziende dei vecchi distretti (italiani e non solo) e innestare quelle di nuova generazione. Evitando che interi territori un tempo pieni di creatività e lavoro si trasformino in deserti abitativi e sociali. Altrimenti, lo vediamo ogni giorno, il rischio è quello di offrire a populisti e situazionisti di ogni colore il terreno per accusare la matrigna di Bruxelles o il cattivone Trump di essere la causa di tutti i mali, senza fare nulla di alternativo.

Aria di casa

Questo è l’orizzonte in cui si è dipanato il lungo dialogo con l’economista Giulio Buciuni. Oggi di stanza tra Treviso, sua città natale, Dublino, dove insegna e Milano, al centro dei suoi nuovi studi. Al Trinity College, la business school della capitale irlandese, è professore associato in imprenditorialità e innovazione. Vi è arrivato passando da Toronto, dove un suo professore lo aveva invitato per proseguire la carriera accademica dopo la laurea alla Ca’ Foscari di Venezia e il dottorato a Verona: «In Italia non era aria», riassume senza acredine. Di recente, ha partecipato all’elaborazione di un documento del Consiglio economico e sociale europeo – Cese. Ma andiamo con ordine.

Partiamo dall’Italia e delle sue periferie competitive (titolo di un suo libro), in un momento in cui le città, Milano in primis, sono messe in discussione.

Quello che succede qui ha radici profonde e ricorda il destino di altri grandi centri. Cresce il divario tra le grandi città superstar del mondo, come le chiama l’urbanista Richard Florida e il resto dei territori. Secondo il Global index, Milano è l’unica città italiana inserita nel rango di Alfa city.

Oggi come oggi non si direbbe un gran merito…

Perché si è scavato un solco tra le città primarie e le secondarie.

Anche Roma è “secondaria”?

Dal punto di vista degli investimenti in innovazione delle attività private, è ai minimi storici. Anche la “mia” provincia veneta, lo dice Fondazione Nord Est, racconta di un flusso continuo di giovani e meno giovani, spesso qualificati, che escono dal territorio per riposizionarsi altrove.

Il travaso di competenze dalla provincia alle grandi città non c’è sempre stato?

Oggi però accade con una velocità a cui non siamo preparati e crea una frattura che negli Stati uniti è ormai fortissima. Trump non vince nelle due coste est e ovest ma nella provincia più conservatrice. E origina quello che Alessandro Coppola chiama Apocalypse town, l’apocalisse delle città. Lo stesso fenomeno c’è in Inghilterra con Brexit, dove si vota Remain a Londra ed Exit nelle zone post-industriali. Inizia ad accadere anche in Italia.

In che senso?

Percorrendo l’Autostrada A4, tutte le città più importanti sono in mano a giunte moderate, progressiste o di centrodestra. Man mano che ci si allontana dal centro urbano gli estremi politici crescono.

Invece a Milano?

Milano è stata ridicolizzata come la città della Ztl, con Sala ad impersonificare tutto questo. C’è però un messaggio molto più profondo da rilevare: la tensione crescente tra gli esclusi e gli inclusi, che sono sempre di più. Non sono soltanto coloro che vanno via perché non reggono il costo della vita. Sono tutti gli abitanti delle provincie italiane che si sentono escluse da un circuito dell’innovazione diventato rigido. Ma qualcuno ci prova.

Sono le start up che lei ha studiato?

In particolare, quelle che non hanno base a Milano, ma nella provincia italiana e provano a ragionare su come aggiornare il sistema industriale assieme alle grandi realtà territoriali. Non per sovrascriversi a un modello economico ormai maturo, che è impossibile, ma per provare a integrarlo.

Da dove arrivano?

Da territori che non ti aspetti, le Murge in Puglia, Livorno, Prato. E da Napoli.

Come hanno a farcela?

Spesso sono spin off universitari di dipartimenti che si occupano di scienze e tecnologia, ingegneria e matematica, gli stem, e che ogni tanto bistrattiamo. Vengono da Unimore in Emilia Romagna, dalla Federico II di Napoli, dal Politecnico di Bari o dalla Sant’Anna di Pisa.

Cosa ci insegna questo dato?

Oggi le start up non le avvia il laureato in giurisprudenza o in scienze sociali, ma chi conosce la tecnologia e le science ed è in grado di fare sponda con l’industria italiana. Che diventa beneficiaria di questo trasferimento di tecnologia e al tempo stesso una sorta di incubatore.

Un caso tra tutti?

La napoletana Megaride, spin off della Federico II. Ha creato un algoritmo che calcola l’andamento degli pneumatici da corsa in tempo reale, ha iniziato a lavorare in Formula uno con la Ferrari e nelle moto con Ducati. Oggi è con Pirelli, per il controllo di qualità su scala industriale.

Altri casi?

La padovana Azzurro digitale che lavora con Electrolux, o la livornese 3D Next tech che lavora con grandi imprese che producono occhiali. C’è una contaminazione tra la base industriale storica italiana e una nuova generazione di imprese che sono fondate da outsider, spesso ricercatori universitari.

Ma queste non sono delle eccezioni?

La mappatura di queste novità non è ancora completa. Se arrivassimo a contarne un migliaio, sarebbe un bel risultato. Sicuramente, è un possibile modello di sviluppo imprenditoriale che non scimmiotta la start up all’americana.

In che senso?

La Silicon Valley, fatta di start up che diventano unicorni da noi non può esistere. È sotto attacco anche in America. Questi esempi esprimono invece una sintesi tra un modello nuovo di impresa e uno più maturo che deve essere aggiornato. Non sono la ricetta di tutti i mali per la provincia industriale italiana che sta soffrendo. Ma un punto su cui lavorare per colmare il gap tra le poche città superstar meno inclusive e i territori che perdono il senso del loro futuro.

Come il “suo” Veneto?

Facciamo i conti con una popolazione giovanile che sceglie sempre più di trasferirsi altrove. Durante il boom economico, il Veneto era uno dei centri di attrazione dei talenti. Poi questo modello si incrina e, con esso, il modello della piccola impresa specializzata.

Da cosa lo si capisce?

Dai numeri ma, più brutalmente, dal fatto che i nostri giovani vogliono lavorare da Oakley in centro a Milano, non nell’azienda di Schio. Per di più, le grandi imprese venete hanno spostato pezzi del loro headquarter a Milano. Pensiamo a Luxottica che ha 5mila dipendenti ad Agordo, ma il valore aggiunto del management è a Milano. Lo stesso hanno fatto Bottega Veneta o la Zambon.

Sta cambiando lo scenario?

Le grandi città diventano cannibali e si portano via, a causa di nuove economie di agglomerazione, i pezzi dell’Italia migliore: imprese, risorse umane e finanziarie. Chi va a Milano spesso porta con sé i risparmi privati delle famiglie che aiutano i giovani a comprare casa. Innescando un trasferimento netto di risorse dalla provincia . Non è tutto da buttare, ma ci vuole un limite.

Di questo ha parlato nel documento per il Cese, il parlamentino sociale europeo?

La Commissione europea ha adottato delle linee guida per integrare l’analisi della catena del valore nei suoi processi decisionali. Io ho contribuito a questo processo in qualità di consulente del gruppo che ha preparato il parere commissionato dalla presidenza danese.

A che cosa mira?

A riorientare le politiche industriali europee a partire dalle competenze e dai limiti dei vari territori industriali europei, che sono diversi e non possono essere serviti attraverso una politica centralizzata e centralista.

Come si fa a capire le diverse caratteristiche dei territori industriali?

Attraverso la lente delle catene del valore, cioè delle tante filiere da cui è fatto il sistema produttivo. Una filiera è integrata in un territorio, ma alimenta anche delle interconnessioni con altre filiere, magari internazionali. La catena del valore è perciò la somma di diverse filiere dal forte radicamento territoriale.

Quindi?

Se vogliamo ridare slancio ai territori all’economia europea dobbiamo pensare in primis di che cosa hanno bisogno i diversi territori industriali europei – quello di Macerata come quelli del nord della Francia – e per capire cosa possono fare. L’analisi di filiera di cui mi sono occupato negli ultimi cinque anni permette di portare a galla delle competenze distintive nei vari territori.

Che cosa succede dopo?

Su quelle competenze si possono disegnare le politiche. C’è  l’anima più sindacalista, che punta sul well-being del lavoratore. Nello studio presentato all’Ue io rappresento l’area più innovativa, che vuole creare nuove start up in continuità con le filiere per il disegno delle nuove politiche industriali europee.

Che rapporto ha tutto questo con la responsabilità sociale d’impresa e la restituzione di valore al territorio?

È il tema centrale. Il modello dei distretti con cui si è sviluppata l’economia in Italia è stato potentissimo e fortemente democratico. Ogni territorio faceva qualcosa, innescando il meccanismo delle esternalità positive. Raggruppare in un territorio tanti piccole e medie imprese crea un’atmosfera, una base di conoscenza che si diffonde nel territorio. Ci sono anche le esternalità negative, come il consumo del suolo e l’inquinamento, ma possiamo affermare che le esternalità positive erano più forti.

Come ripartire?

Se proviamo a ravvivare o iniettare nuova conoscenza e nuova tecnologia all’interno di filiere dormienti, potremo rimettere in moto, con meccanismi simili a quelli che hanno formato i distretti, la produzione di esternalità positive che contribuiscono a ridonare vitalità e dignità a luoghi destinati altrimenti al declino. Come le Rust Belt americane. Un modello così non solo è antidemocratico ma crea dei mostri poi a livello politico.

Non è allora che Trump ha bene in mente quello che succede a casa sua e con le sue politiche maldestre tenta una reazione, anche a danno degli alleati?

Trump è la grancassa di una frattura sociale ed economica molto più profonda, originata dal neoliberismo, clintoniano negli Usa e blairiano in Europa, con un’apertura al globalismo, che ha portato grandi benefici e ferite insanabili. L’Ocse ci dice che, di cento lavoratori impiegati nel manifatturiero negli anni 70 in America, oggi sono rimasti in sei. In Italia il rapporto è passato da 45 a 18. Questa transizione ha aspetti drammatici. Trump ha reagito a una diagnosi, severa ma corretta, con la clava. Non si risolverà pretendendo che si vada a produrre di nuovo in America. Ma il malessere che intercetta è vero, puntuale.

Con epigoni in giro per il mondo.

Quello stesso malessere fa vincere Farage a Birmingham e i partiti populisti come la Lega nella provincia industriale italiana. I populismi vincono in quelle periferie staccate da questo modello economico che non le considera più centrali. Trump entra in questa situazione col suo fiuto da uomo della strada. Mentre la sinistra progressista guardava solo i White people problems, i problemi dei ricchi.

Vista così, il tema della sostenibilità sembra di retroguardia.

La partita è stata giocata malissimo, anche se resta di enorme rilievo. Però ha preso la piega di una conversazione da Greta Thunberg o da movimenti anti impresa. Chi si posiziona nei gangli decisionali della società si è lasciato trascinare da questa corrente che ci ha allontanato da soluzioni più pragmatiche.

Ad esempio?

La sostenibilità non è soltanto piantare più alberi a Milano. Evviva se accade. Vuol dire fare in modo che un’impresa crei valore per un territorio che oggi vede i propri figli emigrare altrove. Con questa narrazione sbagliata siamo stati troppo stretti nel parlare di sostenibilità legata all’ambiente e troppo poco attenti invece a guardare la sostenibilità attraverso un approccio olistico che parla di impatto sociale ed economico.

Non può finire così…

Se proviamo ad alzarci dalla nebbia, Trump sta dicendo ai “cari amici” europei di riportare l’a loro ‘industria in America, perché lui non ce l’ha più. Noi italiani dobbiamo ricordarci che siamo il secondo Paese per output industriale europeo e possediamo una serie di asset che l’America futurista e futuribile in parte ci invidia. Dobbiamo provare a far quadrato attorno a questi asset. Senza far finta che il piccolo è bello, nella retorica folcloristica dell’artigiano che fa tutto a mano.

Dove guardare?

Ai settori industriali di punta, come la meccanica o la farmaceutica, che devono essere legati alla ricerca scientifica e tecnologica e a persone impiegate con profili alti pagate dignitosamente. Magari con l’intervento di una finanza non solo bancaria. Questo è il valore dell’Italia e dell’Europa che oggi fa arrabbiare Trump e che dobbiamo rilanciare, in chiave economica e sociale.

Leggi anche le interviste a:
– Marco Morganti (Assobenefit)
Rivoluzionerò le società benefit, perché un giorno un giudice Antimafia mi spiego: “Funzionano solo i patti tra buoni”;

– Francesco Billari (Bocconi): La Bocconi non torna indietro sulla diversità che è ricchezza. Lo sapeva già la mia Inter nel 1908;

– Eric Ezechieli (Nativa): Lo sviluppo sostenibile non basta più. Le aziende devono rigenerare.

– Filippo Bettini (Global Compact Italia): Lo sviluppo sostenibile non basta più. Le aziende devono rigenerare.

Matteo Righetto (scrittore): Per salvare la montagna e noi stessi, dobbiamo ritrovare la poesia, i dati scientifici non bastano.

Foto in apertura, Giulio Buciuni

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