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Centimetri di comunità

Modena, un miliardo di bene

di Giampaolo Cerri

A tanto si stima che arrivino le erogazioni e gli investimenti, aggiornati in euro, nei 32 anni di storia della locale fondazione di origine bancaria. Il presidente, Matteo Tiezzi, ne racconta gli impegni e la visione su cultura, sociale e ricerca. E spiega la preoccupazione di investire il patrimonio secondo criteri di sostenibilità

«Anche nelle fondazioni medio-piccole come la nostra, se uno sfoglia il racconto delle iniziative e degli interventi sostenuti, trova esperienze meravigliose». Matteo Tiezzi incarna il prototipo emiliano: cordiale, affabile, col gusto per l’eloquio rotondo, un po’ immaginifico. Commercialista con studio molto noto, siede in molti collegi sindacali come revisore e, come tale, è entrato in Fondazione di Modena già nel 2005. L’incontro è nel bel Palazzo Montecuccoli, ristrutturato nel suo piano terra dove trovano spazio attività culturali e conferenze stampa delle associazioni di volontariato.

Spaccata in due dalle Via Emilia, il “bastardo posto” gucciniano ha il volto elegante della provincia operosa e solida. Quella dell’industria meccanica, di quella dell’agricoltura, del food e dell’automotive, del cooperativismo dalle spalle larghe. Questa è la città del governatore Stefano Bonaccini, che qui cominciò a girare con la sua Seat Ibiza fra una sezione e l’altra dell’ex “Partitone”, questa è la città di un vescovo, Erio Castellucci, che piace alla sua gente, perché, anche se è romagnolo e teologo, sa anche essere pastore. Questa è la città di un ateneo giovane e dinamico, l’Unimore, guidato da un rettore, Carlo Adolfo Porro, pacato e negoziatore, tanto da essere stato, si dice, uno dei grandi elettori della nuova guida delle Conferenza dei rettori, Giovanna Iannantuoni. Questa è la città dove torna sempre, quando la sua agenda fittissima lo permette, Ernesto Caffo, l’inventore di Telefono Azzurro, che all’ateneo insegna. È la città di una banca, la storica Popolare dell’Emilia che, un’acquisizione via l’altra, col marchio Bper, è diventata la banca dei territori per definizione, dalla Sardegna al Friuli.

«Tra l’altro», riprende Tiezzi, «questa fondazione ha fatto un altro passo, per me evolutivo, nel rapporto con la banca conferitaria (Unicredit dopo due fusioni: Cassa di Risparmio di Modena e Monte di Bologna e Ravenna in Carimonte, quindi con Credito Romagnolo, ndr). Lo ha fatto perché ci siamo sganciati da un modello che legava in maniera diretta e proporzionale l’entità del capitale alla presenza sul territorio: ora pesiamo meno in Unicredit, ma non abbiamo perso il rapporto con la conferitaria, che si concretizza in partenariati innovativi, come Motor Valley Accelerator».

Presidente Tiezzi, non vi siete fermati cioè al protocollo Acri-ministero delle Finanze, in cui gli enti riducevano i loro pacchetti azionari nelle banche, per ridurre i rischi e garantire il patrimonio.

Sì, avevamo dei limiti molto più ampi, ma abbiamo diversificato perché abbiamo la responsabilità di un patrimonio di quasi 900 milioni che deve avere un rendimento tale da poterci consentire un flusso di erogazioni costante. Quindi non potevamo più avere una quota così importante di capitale su un solo titolo, indipendentemente da quello che fosse, Unicredit o Intesa o Microsoft.

È lontana la stagione dei ricorsi alla giustizia amministrativa, alle battaglie politiche Fondazioni versus Giulio Tremonti, ministro, dei primi anni 2000.

Quel mondo l’ho visto in parte anche io, dato che in quel periodo ero componente dell’organo di controllo della Fondazione. Due mandati davvero belli. Ma come nella vita, ogni cosa ha le sue fasi.

Matteo Tiezzi, presidente della Fondazione di Modena

Vale a dire?

Che né io né lei facciamo le stesse cose che facevamo vent’anni fa. Alcune le rimpiango, però si ragiona con un mondo diverso attorno e ci sono esigenze diverse. Ha avuto un’evoluzione importante anche il Terzo settore, capace di porre domande diverse, più intelligenti, più mirate e guardando con maggiore attenzione ai risultati che ottiene. Per esempio, il tema della misurazione dei risultati se lo sono poste le Fondazioni, ma se lo è posto anche il Terzo settore.

Quale è il vostro ruolo su questo territorio e qual è il valore che la Fondazione ha creato negli anni?

La Fondazione di Modena ha contribuito a un percorso che si caratterizza per un’evoluzione continua nel dialogo col territorio, fino alla coprogettazione delle azioni. I nostri interlocutori ci vedono oggi come partner di progetto e questo consente loro di formulare, nell’ambito dei bandi, le giuste richieste per sviluppare insieme progetti più efficaci. Non le nascondo che il nostro obiettivo è rendere i progetti sempre più autonomi in prospettiva.

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Ossia costruire cose che poi abbiano una loro sostenibilità?

Dal punto di vista delle risorse, l’ottimale sarebbe ottenere che tutti progetti a un certo punto riescano a camminare con le proprie gambe. Sappiamo tuttavia che non è sempre possibile. Il Terzo settore è ampio, c’è sempre bisogno di aiuto, e per questo la nostra misurazione non è meramente finanziaria, ma mira a comprendere l’impatto sul territorio. Stiamo lavorando con il Centro di analisi di politiche pubbliche – Capp dell’Università di Modena e Reggio Emilia, che ci supporta nell’analisi socioeconomica del territorio per interpretare meglio i bisogni delle comunità alle quali facciamo riferimento nel nostro Documento strategico di Indirizzo 2024-2027. Un modello che utilizzeremo successivamente anche nella valutazione per la selezione dei progetti nei bandi.

C’è bisogno di competenze?

Nel definire le sfide sociali che provengono da un mondo di grande complessità, la nostra risposta è stata ampliare ancora più la disponibilità alla co-progettazione. È per questo motivo che sia il Documento Programmatico Previsionale annuale che il Documento strategico 2024-2027 sono formulati secondo un modello che vede una gerarchia di sfide e obiettivi, sempre più puntuali e misurabili, per evitare intenzioni generiche e sottoporci al vaglio di una misurazione sempre più oggettiva e trasparente verso i nostri stakeholder.

Un approccio interessante.

Il Documento Strategico di Indirizzo è il frutto del lavoro collettivo del nostro Consiglio di indirizzo. I primi sei mesi di attività di quell’organo sono stati dedicati alla sua stesura, a partire da un percorso di ascolto di esperti e stakeholder. Abbiamo coinvolto, fra gli altri, Marco Rossi Doria, Fabrizio Barca, Gianluca Galletti, Martina Bagnoli, Valter Malosti, Luca Dal Pozzolo, per citare solo alcuni, cercando di elaborare una visione alta dei problemi, da coniugare alla nostra visione territoriale, fondata sull’analisi di dati oggettivi.

Avendo lei a lungo fatto anche il sindaco revisore in Fondazione ci può spiegare dov’è che siete riusciti a migliorare, a evolvere positivamente.

La necessità della misurazione del risultato delle nostre azioni era già chiara nei precedenti mandati. Siamo stati in grado di crescere, perché anche i nostri beneficiari sono cresciuti di pari passo. È chiaro che, se guardo al decennio nel quale ho fatto il sindaco revisore, vedevo allora più domande con finalità importantissime ma con una capacità di misurazione dei risultati molto diversa. Erano l’espressione di una grande, positiva volontà di “far bene”, da parte di soggetti che non disponevano ancora di tutti gli strumenti per verificare se alle intenzioni seguivano oggettivi risultati concreti.

Prima c’era l’approccio “bancomat”, come abbiamo detto in altre interviste ai suoi omologhi …

Quello era l’erede dell’antico modello delle Casse di risparmio, di un mondo in cui le risorse sembravano infinite. Sembrava naturale e dovuto che la produzione di utili dovesse ricadere immediatamente sul territorio, quasi senza mediazioni; tuttavia, anche il lavoro svolto nelle consiliature che ho conosciuto come revisore è stato caratterizzato da un approccio rigoroso che poneva attenzione ai risultati proposti ed all’impatto sulla comunità. Chiaro poi che la disponibilità di importanti risorse che la Fondazione pone al servizio della comunità ha determinato aspettative con le quali ci siamo dovuti confrontare anche nella precedente consiliatura. Il costante dialogo con stakeholder e beneficiari ci ha permesso di ricondurre il nostro contributo ad un modello di coprogettazione, ben diverso dall’approccio “bancomat”. Il modello è cambiato perché si è modificato il mondo fuori dalla finestra.

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Torniamo al Documento Programmatico Previsionale per il 2024, presidente.

Lo ritengo un ottimo documento perché, pur ponendo a disposizione un ammontare di risorse complessivamente più basso rispetto all’anno scorso, 20 milioni rispetto ai 21, riusciamo a garantire 430 mila euro di risorse in più per il territorio, riequilibrando il rapporto tra iniziative di valenza nazionale e nel segno della sussidiarietà. sviluppate in ambito Acri, dalla povertà educativa alla “Repubblica digitale”, con una rinnovata attenzione alle richieste della società locale.

Entriamo nel dettaglio?

Lo abbiamo modulato in tre aree: “Persona”, “Pianeta” e “Cultura”. In “Persona” troviamo tutte le attività che fanno riferimento all’ambito sociale, è il più rappresentato, con risorse complessive per 8,7 milioni di euro. L’ L’area “Cultura” mette, invece, a disposizione 7,35 milioni di euro. Infine, l’area “Pianeta”, che riunisce sia i temi della ricerca scientifica che quelli della sostenibilità ambientale, vede assegnati quasi 4 milioni di euro.In questa cornice, oltre ai grandi bandi che garantiscono un sostegno fondamentale e continuo a chi risponde ai bisogni sociali – primo fra tutti il bando Personae che stanzia 4,5 milioni di euro per progetti del terzo settore e degli enti pubblici – non rinunciamo mai alla funzione primaria di sostegno alla sperimentazione. E a volte abbiamo la soddisfazione…

La soddisfazione?

Beh la soddisfazione di vedere bei progetti originali che nascono e riescono poi a camminare da soli. Nella Giornata Europea delle Fondazioni promossa da Acri, per esempio, abbiamo valorizzato alcune tra le esperienze di integrazione di maggiore soddisfazione. Tra queste Roots, un nuovo progetto incentrato sulla formazione delle donne migranti volto a favorire l’integrazione e l’inserimento lavorativo nel settore della ristorazione.

Quali altri la fanno pensare che state facendo un buon lavoro?

Sono andato a visitare la “Casa della gioia del Sole”, un’abitazione dedicata agli ospiti affetti da demenze, realizzata come ambiente familiare in cui gli ospiti possono sentirsi a casa propria anche trascorrendo momenti con i propri familiari. È una realtà di assistenza per persone con anziane e con disabilità. Sono problemi molto impattanti sulla popolazione, soprattutto perché, con l’invecchiamento, i problemi si moltiplicano. Lì è stato realizzato un contesto pienamente accogliente e confortevole per i malati e un servizio di sollievo alle famiglie. Ma tutte le nostre azioni su fragilità e disabilità presentano aspetti interessanti: il progetto de “Il Tortellante” ad esempio si rivolge a giovani adulti con autismo e attraverso attività di formazione, socialità e ricerca promuove la socializzazione in contesti esterni, frequentati da coetanei, o in contesti protetti in piccoli gruppi assieme a educatori e volontari.

Il Terzo settore l’abbiamo citato più volte. Come l’ha visto cambiare? 

Mi pare ci sia stata una grande evoluzione verso una vocazione partecipativa. Il Terzo settore che conosciamo è pienamente disponibile alla coesione e alla coprogettazione. Senza dimenticare l’ottimo rapporto col Centro servizi volontariato di Modena, con cui abbiamo siglato un accordo quadro per il sostegno alla progettazione dei beneficiari e la promozione dei nostri bandi, perché la loro capillare conoscenza dei fenomeni sociali sul territorio è una risorsa fondamentale, della quale ci avvaliamo.

La valutazione dei progetti. La fate voi? La chiedete ai beneficiari?

La valutazione è una responsabilità fondamentale sia nostra che dei nostri beneficiari. E su questo insistiamo anche nello sviluppo dei bandi. Nel Bando Personae, per esempio, essendo la valutazione dell’ambito sociale meno agevole, perché noi non valutiamo numeri ma servizi, inclusione, aiuto, diamo meno importanza al “foglio a quadretti”. Ma bisogna continuamente ragionare per capire come gli impatti delle nostre azioni arrivano alla comunità e quanto possono essere duraturi.

Centimetri di comunità sarà un podcast

So che avete anche un’attenzione alla sostenibilità e anche per il vostro patrimonio, ragionate come gli investitori più attenti. 

Non da ora, è un tema importante. Perché poi noi abbiamo sempre due facce, quelle erogativa e quelle di gestione del patrimonio. E poi sa, la mia professione è quella di commercialista, e a partire da questo vissuto ripeto spesso che bisogna “fare i conti sul foglio a quadretti”: i numeri devono quadrare. Anche se talvolta negli investimenti, consapevolmente e in quantità definite dai nostri regolamenti, più che una prospettiva di redditività, privilegiamo l’attenzione al territorio e le finalità sociali della Fondazione rispetto al rendimento finanziario “puro”.

Facciamo qualche esempio? 

Il Fondo Emilia-Romagna Social Housing, nel quale abbiamo investito, che sta sviluppando residenzialità sociale sul territorio emiliano-romagnolo e marchigiano. Molto interessante perché, accettando un rendimento finanziario magari di poco inferiore a quelli di mercato, ha un impatto immediato sulla comunità, non soltanto modenese, ma intesa in senso allargato, ben oltre il confine del proprio giardino. L’altro è un investimento molto recente quello nel fondo “Cooperazione e Terzo Settore”, un fondo gestito da Sefea Impact Sgr che intende investire in iniziative di “imprenditorialità sociale” costituite e operanti in Italia.

Tiezzi, dove va la filantropia di origine bancaria in Italia? Ogni anno le fondazioni trasferiscono alla comunità un miliardo di risorse. Ma a volte c’è la sensazione che, né gli italiani né le comunità locali, ne siano molto consapevoli.

A volte noi stessi fatichiamo a percepire esattamente la dimensione della nostra azione. La Fondazione di Modena ha distribuito 320 milioni negli ultimi 10 anni, quindi, considerando che la fondazione è in vita da 32 anni, con buona probabilità ci avviciniamo al miliardo nella nostra storia. Ma la filantropia, che ha vissuto un’enorme evoluzione, non risiede più solo nella capacità erogativa in termini finanziari. L’elemento caratterizzante è per me la capacità di generare un effetto duraturo sui territori, per le 450mila persone che costituiscono la nostra comunità.

E con la politica va tutto bene? Le stagioni del contrasto sono lontane? 

Le fondazioni hanno dato piena dimostrazione del fatto di essere una risorsa per la collettività e credo che chiunque abbia buon senso non possa rinunciare al valore del lavoro comune, fatto con la politica, in senso alto. Penso, ad esempio, al lavoro fatto sul nostro territorio per il Pnrr: se non ci fosse stato l’intervento delle fondazioni tanti progetti non si sarebbero realizzati. Siamo un elemento di integrazione e moltiplicazione di energie che una politica lungimirante non può che vedere favorevolmente.

La foto di apertura, di Federico Meneghetti per Agenzia Sintesi, mostra la Via Emilia nel centro di Modena.

Puntata n. 3


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