«Per essere realmente propositivi ed evitare di proclamare semplicemente slogan, continuiamo ad ascoltare le diverse realtà territoriali e fare sintesi delle esperienze raccolte», dice Nunzia De Capite, sociologa dell’ufficio politiche sociali di Caritas italiana, a proposito del Reddito di cittadinanza. Un tema che l’ha vista tra i protagonisti del seminario sulle misure di lotta alla povertà “Adeguate ai temi e ai bisogni: le politiche contro la povertà in Italia”. De Capite ha aggiunto: «Il fatto che lo stesso governo si sia dato un anno per formulare una riforma del Reddito di cittadinanza (Rdc) ci consente di proseguire nel confronto e nel processo avviato con l’auspicio di riuscire ad elaborare e offrire proposte concrete e meditate insieme agli altri organismi della Chiesa italiana. Visto che questo non è l’unico strumento di contrasto alla povertà che abbiamo a disposizione».
La povertà assoluta conta oggi in Italia 5 milioni le persone. Nonostante il Rdc il numero è cresciuto, e non solo a causa della pandemia e del caro energia, perché?
La povertà assoluta aumenta dal 2008, fatta salva una leggera flessione del 2019. Se non si scioglieranno i nodi delle cause, la povertà e la disuguaglianza resteranno una prospettiva ineluttabile per troppe persone nel nostro Paese.
Il governo ha stabilito nella legge di bilancio misure transitorie per il 2023 e una riforma complessiva nel 2024 del Rdc. Secondo lei l’idea della separazione delle misure – una per il supporto alle persone in povertà e una mirata alle persone disoccupate che potrebbero essere inserite nel mercato del lavoro – è valida?
Credo di sì. Per ora c’è solo la teoria e aspettiamo i decreti attuativi, ma permetterebbe di superare la fondamentale criticità del Rdc: conseguire con un unico strumento due obiettivi non necessariamente conciliabili, contrasto alla povertà e inserimento lavorativo. Il problema sarà capire come tutto questo verrà fatto. Secondo il report sulle povertà pubblicato da Caritas italiana, soltanto il 44% dei poveri assoluti ha finora percepito il Reddito di cittadinanza – mentre secondo la Banca d’Italia il 51% -. Chiediamo quindi di intervenire su tre dimensioni: i criteri di accesso; irrobustire i percorsi di inclusione sociale; orientare il sistema dei percorsi di inclusione lavorativa, rendendo conveniente lavorare o accettare nuove occasioni di lavoro per chi è occupabile, con interventi adatti per chi non è temporaneamente occupabile.
Lei ha insistito spesso sul tema delle disuguaglianze, perché e quali sono?
Le disuguaglianze affliggono il nostro Paese da tempo: di reddito, di ricchezza, disparità di condizioni di lavoro e di trattamento economico e di tutele. Oggi i redditi sono più bassi di oltre il 10% rispetto al 2006 e il lavoro si è più precario tra la riduzione degli orari di lavoro, l’aumento dei contratti a tempo determinato, creando di fatto un gruppo sociale di “lavoratori poveri”. Interventi re-distributivi come il Reddito di cittadinanza, possono al massimo ambire a riequilibrare il divario fra le disponibilità economiche delle persone con l’erogazione economica. Ma occorre pretendere che lo Stato metta in campo anche interventi pre-distributivi in grado di agire a monte sui processi di creazione dei divari di reddito e di ricchezza fra le persone come nel caso di regole del mercato del lavoro, la tassazione, il fisco o l’istruzione. Se non si agisce sulle cause, la povertà e la disuguaglianza resteranno un destino ineluttabile per troppe persone.
L’attuale governo ha detto che il Rdc ha fallito nella lotta alla povertà e vuole puntare forte sul favorire l’inclusione lavorativa. Come vede questa mossa, soprattutto nelle zone depresse dove il lavoro non c’è?
Il reddito di cittadinanza ha portato con la sua introduzione un immediato sollievo economico a moltissime famiglie in difficoltà, soprattutto con la pandemia. Le stesse Istat e Inps hanno calcolato che senza il Rdc sarebbero cadute in povertà oltre un milione di persone in più. Ma sia il contrasto alla povertà che l’inserimento lavorativo sono processi che richiedono tempo. Inoltre molti “occupabili” hanno per le aziende un profilo problematico per via del basso grado di istruzione, o perché lontani dal mercato del lavoro da anni e con esperienze lavorative pregresse frammentate e di breve durata. Di conseguenza occorrono interventi adeguati e lunghi sia dal punto di vista sociale, sia sul fronte lavorativo. Finora si è sempre ragionato solo sull’offerta di lavoro e sulle competenze delle persone, trascurando invece la domanda di lavoro delle imprese, del settore pubblico e di altri soggetti privati, compreso il privato sociale che non può assorbire tutta questa domanda e non è giusto che lo faccia.
Il governo Meloni ha presentato una sua riforma del reddito di cittadinanza che partirà dal 2024. Era necessaria?
Crediamo di sì. Pensare inoltre ad una riforma con 12 mesi per metterla a punto penso sia positivo perché vuol dire che si dedicherà l’intero 2023 a programmarla.
Cosa auspica tenga in considerazione questa riforma?
Di tutto quello che già l’esperienza sul Rdc ha insegnato nei tre anni di attività nel bene e in quello che non ha funzionato, e che si dialoghi chi sui territori con questa misura lavora quotidianamente, dagli assistenti sociali, ai funzionari dei comuni, fino agli operatori dei Centri per l’impiego. La direzione in cui governo sembrerebbe voler andare è quella della separazione delle misure: una solo per il supporto alle persone in povertà e una mirata alle persone disoccupate che si punta a reinserire o immettere nel mercato del lavoro e che hanno bisogno di un sostegno economico temporaneo.
Esiste altrove questa suddivisione?
Sì, in diversi paesi europei come Austria, Finlandia, Francia, Estonia, Grecia, Portogallo, Svezia e Spagna. L’idea, che ad oggi ci è nota sulla carta e per sommi capi, è buona e permetterebbe di superare la criticità maggiore del Rdc, ovvero il trovare lavoro ai percettori. In questo modo si agirebbe con due strumenti – non più solo uno, il Rdc – su due obiettivi non necessariamente conciliabili, come il contrasto alla povertà e l’inserimento lavorativo.
L’ultima legge di bilancio però prevede già una serie di interventi sul Rdc…
La decisione di limitare il Rdc solo ai primi sette mesi del 2023 per le persone “occupabili” è rischiosa in quanto l’occupabilità viene definita sulla base non di requisiti lavorativi, ma familiari: ovvero il non vivere in nucleo con figli minori, con persone con disabilità e over60 anni. Questo metterà in difficoltà molte persone in condizione di grave vulnerabilità che, allo scadere dei sette mesi, non riceveranno più alcun tipo di sussidio solo perché sono single o vivono in coppia senza figli. Un’altra previsione consiste nel rendere vincolante per i percettori di Rdc under29 il completamento dell’obbligo scolastico: questo dovrebbe invertire la rotta visto l’aumento dei Neet, i giovani che non lavorano né studiano, nel nostro Paese, ma anche in questo caso a patto che si inserisca nel quadro complessivo di interventi per promuovere il benessere della persona con l’aiuto degli assistenti sociali e degli operatori sei servizi territoriali. Non tanto e solo un obbligo, quindi, ma una opportunità e che come tale sia vissuta dalle persone.
Avendo dichiarato che si passerà a due misure, immaginiamo che il prossimo passo del governo nelle prossime settimane consisterà nel render noti quali saranno i sostegni a disposizione degli 800mila “occupabili” che da agosto non riceveranno più il reddito e non avranno trovato lavoro, visto che in Europa chiunque si trovi in povertà, che sia occupabile o meno, ha diritto a ricevere a un aiuto pubblico. Non è pensabile che l’Italia diventi l’unico Paese privo di tale diritto.
In ultima istanza, secondo lei su quali sarebbero le novità più urgenti da inserire per invertire la rotta delle crescenti povertà e disuguaglianze?
Bisogna intervenire innanzitutto sui criteri di accesso, partendo dalla diminuzione del numero di anni di residenza richiesti, e lavorando poi sulla rimodulazione delle soglie economiche al Nord che non possono essere uguali a quelle del Centro e del Sud pensando ad una scala di equivalenza non discriminatoria verso le famiglie più numerose.
Inoltre pensiamo che i percorsi di inclusione sociale vadano irrobustiti assumendo assistenti sociali che garantiscano almeno un rapporto di 1 a 5.000 e supportando agli Ambiti territoriali sociali dal punto di vista amministrativo e contabile.
Infine, lato lavoro, è necessario orientare il sistema dei percorsi di inclusione lavorativa, rendendo conveniente lavorare o accettare nuove occasioni di lavoro per chi è occupabile. Ad esempio attraverso incentivi per i beneficiari che iniziano a lavorare e un sussidio ad hoc per i lavoratori, disegnano anche interventi adatti a chi non è temporaneamente occupabile, innanzitutto riconoscendo la quota di utenti non occupabili e quindi predisponendo risposte opportune per loro. Su questo stiamo lavorando ad un pacchetto di proposte concrete che forniremo al governo tra qualche settimana e su cui siamo disponibili a dialogare.
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