Boris Cyrulnik

«Resilienza, parola manipolata. Dalla politica»

di Luigi Alfonso

Parla il celebre psicoanalista francese, che per primo ha utilizzato questa parola per intendere la capacità delle persone di superare fasi di grande sofferenza. E spiega come questo termine sia strumentalizzato da chi ci governa

«Stiamo andando incontro a una serie di catastrofi annunciate, sia dal punto di vista sociale che ambientale, ma sono ottimista. Perché la storia dell’umanità ci insegna che, dopo ogni catastrofe, si è sempre aperto un nuovo ciclo di vita». A Boris Cyrulnik piacciono i paradossi, anche forti, ma si rifà sempre a dati inconfutabili. L’illustre neuropsichiatra e psicanalista di Bordeaux, nei giorni scorsi a Cagliari per intervenire alla Conferenza nazionale “Aprire Orizzonti” organizzata da Casa Emmaus Iglesias, è colui che ha introdotto in psicologia il termine “resilienza” che, come è noto, è una caratteristica di certi metalli capaci di non rompersi anche dopo esser stati sottoposti a una fortissima pressione, recuperando la forma originale.

È conosciuto e stimato in tutto il mondo anche per aver scritto una quarantina di libri divulgativi o specialistici. Di origine ebraiche, era miracolosamente scampato alla deportazione.

Professore, lei ha ampliato l’accezione tecnica del termine resilienza, intesa come capacità di reagire a traumi e difficoltà. Una modalità emersa in maniera dirompente negli ultimi anni con la pandemia. Si ricollega al suo libro “La vita dopo Auschwitz – Come sono sopravvissuto alla scomparsa dei miei genitori dopo la Shoah”. Questi due eventi sono ricollegabili?

Si utilizza questo termine dopo un trauma oppure quando si verificano le condizioni di sviluppo dopo un evento traumatico, come è stata la pandemia Covid. La storia dell’umanità è fatta di traumi, ogni generazione ha registrato guerre, pandemie ed eventi naturali terribili. Penso alla peste nera che, in epoca medievale, uccise un europeo su due. Alla fine dell’Ottocento, un bambino su due moriva entro il primo anno di vita, e l’aspettativa di vita di una donna era di appena 36 anni. Non solo: la violenza, nel diciannovesimo secolo, era la regola per sopravvivere. Quando la civiltà si è sviluppata, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, ho creduto che l’umanità avrebbe debellato le guerre. Ho sbagliato, infatti oggi sono in corso una cinquantina di conflitti bellici. Tutti i Paesi, compresi Francia e Italia, utilizzano la brutalità dei bambini maschi per insegnare loro a fare la guerra. Oggi la violenza è di nuovo un valore. I maschi mostrano grande intolleranza alla frustrazione, le femmine reagiscono solitamente con l’uso della parola. Abito a Tolone, dove c’è un porto militare. Ebbene, il 50 per cento di ragazzi e ragazze desidera arruolarsi nell’esercito. Non mi sembra un segnale di pace.

L’intervento di Boris Cyrulnik ad “Aprire Orizzonti”

In Italia il termine resilienza viene spesso usato a sproposito. E qualcuno la confonde con “resistenza”.

Se io ti attacco e tu soffri ma mi affronti e ti difendi, questa è resistenza. Se invece cadi in un torrente, vieni travolto dalla corrente impetuosa, ti lasci trasportare per un po’ ma in vista della cascata fai di tutto per salvarti, questa è resilienza. Ce ne sono diversi tipi: resilienza sociale, biologica, psicologica. Il termine è stato manipolato da parecchi politici, i quali dicono: se siete resilienti, siete forti e non avete bisogno dell’aiuto dello Stato, inteso come welfare sociale. È invece vero il contrario, oggi più di ieri. La teoria evoluzionistica di Darwin è stata reinterpretata ad arte, già nel 1861, dall’estrema destra inglese. Così si è arrivati al darwinismo sociale che poi ha condotto al nazismo. Quando ho visto che, di recente, una certa destra ha ripreso il concetto di resilienza in economia, ho capito che c’è una deriva ragionata. Non sempre ha la meglio il più forte: i dinosauri erano certamente i più forti esseri viventi, eppure si sono estinti. Invece si sono salvati piccoli animali come i topi. Sopravvive chi si adatta meglio alle difficoltà. Ero ad Haiti, dopo il terremoto del 2010 che ha ammazzato circa 230mila persone in un minuto. Arrivarono i rappresentanti del governo e dissero ai sopravvissuti: siete i più forti, arrangiatevi. Le sembra normale?

Certo che no. Ma lei è ottimista circa il prossimo futuro?

Sì, e sa perché? Perché ci troviamo nel mezzo di una nuova catastrofe: sociale, climatica e biologica. Il mondo è in continua evoluzione: riguarda il genere umano ma anche piante e animali. Se non ci fosse l’evoluzione, moriremmo. Esattamente come è successo al 90 per cento delle specie animali. Ma l’evoluzione avviene sempre dopo una catastrofe, una guerra, una terribile pandemia, una glaciazione. L’Uomo reagisce a ciò inventando una nuova cultura. Nel Medioevo, quando la popolazione europea fu decimata dalla peste, cambiarono le condizioni dei contadini, sino a quel momento sfruttati in maniera ignobile. Per mangiare, servivano i prodotti dei campi, e loro beneficiarono di trattamenti economici finalmente adeguati. Ma solo perché erano diventati preziosi anche per i sovrani. Così la schiavitù dei contadini sparì quasi in modo naturale.

Come si esce indenni da questa situazione?

Per me, c’è solo un modo: dare più spazio a pensatori illuminati, filosofi, artisti e tutte quelle categorie umane che amano ciò che è bello. La parola crea la condizione umana. Parlo al mio cane ogni giorno, ormai capisce almeno 200 vocaboli. Potrebbe fare una carriera politica, magari lo candiderò alle prossime presidenziali ma non sarà eletto perché è troppo intelligente. Mi passi la battuta: voglio semplicemente dire che gli esseri viventi hanno davvero infinite capacità. Bisogna tirarle fuori.

Qual è il suo rapporto con Israele, alla luce di ciò che sta accadendo da quelle parti?

In quel Paese ho tenuto spesso lezioni universitarie, ma ho seguito anche numerose tesi di studenti palestinesi. A casa mia ho ospitato gli uni e gli altri. Io sono contrario a tutte le guerre. Soffro terribilmente per ciò che accade in Ucraina, dove nacquero i miei avi paterni. E soffro per le guerre in Medio Oriente: non dimentico i 600mila palestinesi uccisi in Siria o il conflitto nello Yemen. C’erano strade percorribili per arrivare a una soluzione pacifica ma si sono lasciati faccia a faccia le due fazioni più estreme.

In ballo ci sono giganteschi interessi economici e di potere. Come sempre.

Non c’è dubbio. Il dramma è che, da una parte e dall’altra, ci sono gruppi di persone che vorrebbero sterminare il nemico. Stanno morendo tantissimi civili: in proporzione, più di quanto sia avvenuto in altre guerre. Ma la situazione è cambiata parecchio, per esempio rispetto alla Seconda guerra mondiale: allora i combattenti indossavano delle uniformi ed erano facilmente distinguibili; oggi si mischiano al resto della popolazione. Ho visto con i miei occhi ragazzi di Hamas, vestiti con t-shirt e jeans ma armati sino ai denti. Il razzismo e il fanatismo stanno avendo il sopravvento, purtroppo. Negli anni Trenta, i comunisti facevano così paura ai borghesi europei che la destra divenne molto aggressiva. Oggi Hamas rinforza l’ideologia dell’estrema destra israeliana, ma accade anche l’esatto contrario. Le due parti si rafforzano a vicenda. Non dimentichiamo che, nella storia dell’umanità, le donne sono state generalmente sottomesse mentre gli uomini venivano dipinti come eroi, per prepararli al sacrificio. Per colpa di questa ideologia, sono morte milioni di persone.

Ritorniamo alla resilienza. Come l’ha scoperta?

A sei anni persi mio padre. Era arruolato nell’esercito francese, fu catturato e deportato ad Auschwitz, dove lo uccisero. Mia madre vi finì direttamente. Io riuscii a scappare, miracolosamente. Mi ospitò una famiglia e mi salvai. Ebbi modo di studiare e laurearmi, ma anche di compiere un lungo percorso di comprensione, che in verità non ho ancora concluso: ci vorrebbero altri due secoli, forse.

Platea attenta durante l’intervento di Boris Cyrulnik, a Cagliari

Lei ha girato il mondo in lungo e in largo. Avverte tensioni sociali legate al razzismo anche in Paesi inclusivi come Stati Uniti e Francia?

In parte, sì. Ma l’inclusione dei migranti è sempre stata un problema un po’ ovunque.

Le guerre, la fame la siccità hanno sempre generato le migrazioni. Oggi una parte dell’Europa si oppone a questi ingressi.

Sono stato a Montreal, in Canada, nel periodo in cui avevano bloccato gli ingressi di lavoratori stranieri. In dieci anni, quel Paese si impoverì: i consumi erano precipitati e non si trovava la manodopera in molti settori importanti. Quando lo capirono, riaprirono le frontiere e l’economia riprese a decollare. Oggi in Francia abbiamo ospedali bellissimi ma mancano molti specialisti, siamo costretti a formare medici che arrivano da Marocco, Algeria e Tunisia. In molti ospedali psichiatrici non abbiamo più primari all’altezza. Bisogna incoraggiare l’immigrazione, magari controllata. Non c’è altra via d’uscita.

E in Medio Oriente sarà mai trovata questa via d’uscita?

Essere per la pace, da quelle parti soprattutto, è altamente rischioso: basta vedere ciò che in passato è accaduto a Sadat e Rabin. I fanatici trovano sempre un pretesto per armarsi e sparare. Io stesso sono stato più volte minacciato di morte da persone di opposte fazioni, per le mie idee pacifiste: sanno dove abito, hanno detto che possono venire a uccidermi quando vogliono. Un giorno ho trovato le quattro gomme dell’auto squarciate, e non credo che fosse opera di teppisti. Sinché non saremo educati al rispetto dell’altro, la violenza crescerà. Più che alla pace, si punta a produrre nuove armi biologiche in laboratorio. Quando un popolo vive nell’ansia e nella paura, vota sempre per un dittatore: è successo con Hitler in Germania e con Mussolini in Italia, per fare due esempi. Oggi c’è Milei in Argentina. Per contrastare questo genere di politici, c’è soltanto un modo: sviluppare la cultura dell’empatia.

Credit: la foto in apertura è dell’Agenzia LaPresse

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