Più del 70% degli 8000 Comuni italiani sono di piccole dimensioni. Molti di questi si trovano in zone montane, che rappresentano circa il 35% del nostro Paese. Diventa indispensabile, quindi, trovare il modo di connettere città e montagna e di erogare dei servizi anche per chi sceglie di vivere nelle terre alte. «Tutti i cittadini devono essere trattati allo stesso modo, così dice la nostra Costituzione», dice Anna Giorgi, professoressa della Statale di Milano, nella sede distaccata Unimont a Edolo, piccolo comune montano in provincia di Brescia, e curatrice del Libro bianco sulla montagna. «In più, conviene allo Stato che delle persone restino a presidiare i territori importanti, che offrono servizi ecosistemici, cioè risorse naturali, prima tra tutte l’acqua». La docente, intervenuta al Festival del Pensare contemporaneo di Piacenza lo scorso 23 settembre, ritiene che abbandonare la montagna non sia nemmeno immaginabile: bisogna formare i giovani – come sta facendo Unimont – a essere preparati alla vita nelle terre alte, scoprendo nuovi modi per rilanciarle e diventando ambasciatori in Italia, Europa e nel mondo di un territorio che amano e che abitano.
Professoressa, qual è la situazione della montagna italiana oggi?
C’è una complessità crescente, dovuta sia agli effetti dei cambiamenti climatici sia alle contingenze socio-economiche. Non mi piace definirli problemi: è una brutta abitudine definire ciò che cambia inevitabilmente un problema, quando potrebbe essere invece un’opportunità. Da questo punto di vista è fondamentale riuscire a dare voce a chi vive la montagna, a chi sta in montagna e la sceglie come luogo in cui esprimersi professionalmente e in cui fare famiglia. È questa la missione dell’Università della montagna, di Unimont: abilitare giovani appassionati ad abitare nelle terre alte.
I giovani che vengono da voi intendono costruirsi un futuro in montagna?
Se scelgono Unimont è perché evidentemente hanno a cuore la montagna e immaginano di poterci vivere. Dico immaginano perché molti dei nostri studenti vengono dalla città; magari hanno famiglie originarie delle terre alte ma non ci hanno mai abitato. Fare un’esperienza di vita in un piccolo Comunedi montagna come Edolo diventa quindi estremamente importante, perché li aiuta a rendersi conto se quella situazione è o meno quella desiderata, se possono o no viverci e lavorarci. Si tratta di una grande intuizione che ha avuto la Statale di Milano 25 anni fa, innescare questo processo in forte relazione con le istituzioni territoriali. Si tratta di un’idea brillante, che può fare la differenza.
In che modo?
Al polo di Edolo non solo si studiano le discipline che possono aiutare a produrre valore dalle specificità della montagna, ma i ragazzi vivono anche tutti i giorni per tre anni in un contesto montano. Questo rafforza o spezza la loro convinzione. Ormai abbiamo accompagnato alla laurea circa 600 giovani; nel nostro database c’è ormai un bel numero di esperienze professionali che dicono molto di quanto si può fare e di come si deve fare in montagna per «vincere».
Quali sono le esperienze di successo per rilanciare la montagna e permettere alle persone di viverci?
Abbiamo tante aziende agrituristiche multifunzionali, dove vengono realizzati prodotti di grande qualità, venduti direttamente, quindi in un sistema a filiera corta. Il modello della ricettività e della ristorazione funziona in montagna. Se poi si produce prodotti di nicchia funziona ancora meglio. Mi viene in mente la storia di uno studente che ha fatto con me la tesi di laurea, studiando il fagiolo Copafam, che in dialetto significa «Che uccide la fame»; sono legumi ricchi di proteine e di fibre che crescono in montagna, stanno molto bene in quota, anche a 800 o mille metri; se si abbassa la quota di coltivazione si ammalano e producono poco e male. Questo ragazzo, finito il suo percorso di studi, ha aperto un’azienda agrituristica tutta basata sul fagiolo. Poi ci sono tante altre esperienze, in cui si fanno prodotti diversificati, salumi, cereali: gli studenti si inventano ogni anno una filiera in più, con un nuovo prodotto da inserire nel paniere.
Si creano nuove professionalità a Unimont, quindi?
Si creano professionalità che siano sempre più capaci di rappresentare questi territori, perché li conoscono bene, nei tavoli di lavoro nazionali e internazionali. È questo che stiamo facendo a Unimont, maturando un po’ alla volta l’esperienza che ci permette oggi di essere presenti anche a livello europeo, portando un contributo esperto, non solo perché si fa ottima didattica, ma anche per i numerosissimi progetti di ricerca che sviluppiamo a Edolo. È una piccola dimensione, che è diventata eccellenza: questo dimostra che c’è molto altro in montagna rispetto alle etichette che di solito le si associano, come marginalità e svantaggio. Poco fa abbiamo varato un progetto Horizon Europe, uno dei programmi comunitari più competitivi. È stata una grande soddisfazione: Edolo è capofila di una cordata di 47 partner di 12 Paesi Europei.
In montagna si trasferiscono alcune persone dalle zone urbane e vengono sviluppati delle aziende rivolte a chi viene dalla città e vuole godersi il turismo in alta quota. Ma come facciamo a far sì che chi è nato in queste zone possa rimanervi, se ci sono sempre meno servizi?
Io da nativa montanare posso dire che, alla fine, la montagna è di chi la sceglie. E deve essere così, non è necessariamente di chi ci nasce, che magari sente giustamente il bisogno di andarsene a un certo punto della vita. Tra i nostri studenti di Unimont abbiamo una percentuale di locali che è meno del 10%; il 90% viene da fuori. Non tutti dalle città, alcuni provengono anche dalle altre vallate. In molti vogliono fare esperienze diverse rispetto alla vita nel piccolo paese e devono poterle fare. Poi ci sono i ragazzi di montagna che sono fortemente attaccati al proprio territorio e non ci pensano neanche ad andare via. Bisogna quindi cercare il modo di sostenere chi vuole vivere nelle terre alte, che sia locale o no. Le difficoltà sono date da politiche sbagliate: si dimensionano i servizi da erogare in base al numero di abitanti e non in base a quanta terra ogni abitante ha sulle spalle. Immaginando uno zaino sulla schiena di tutti noi in cui portare il territorio di pertinenza, è ovvio che chi vive a Milano ce l’avrà praticamente vuoto, mentre chi sta in montagna ce l’avrà molto più pieno. Bisognerebbe ricalibrare i pesi, perché questi territori vanno gestiti e questo ha dei costi, di cui si deve tenere conto. È un ragionamento che mi rendo conto che non sia comune, ma va fatto se vogliamo dare un futuro a questi contesti, se vogliamo che le persone ci restino e ci restino con tutti i servizi. Su questo non ci piove: deve essere garantita la scuola – quindi l’educazione –, la tutela della salute, la mobilità il lavoro.
Come?
Oggi si parla molto della transizione digitale: le montagne sono un luogo fantastico dove mettere a terra delle progettualità innovative, sportelli che eroghino da remoto servizi di svariata natura, dal rilascio di documenti fino alle pratiche di carattere burocratico, amministrativo e legale. So che le Poste si stanno muovendo in questo senso; però ci sono bei progetti anche di telemedicina per i territorio montani, ne ho letti tanti in questi anni, a livello europeo. Ma di messo a terra concretamente, a oggi, c’è poco. Bisogna impegnarsi di più, perché non abbiamo più scuse: le risorse ci sono e anche di giovani che puntano sul territori montani, imprenditori con idee creative.
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