Dijana Pavlović

Vi racconto i rom, il mio popolo irriducibile sopravvissuto alle persecuzioni e al genocidio

di Cristina Giudici

In "Irriducibili - Alterità dell’anima zingara", Dijana Pavlović, attrice e attivista rom, riflette sull'identità del suo popolo. Il libro, un saggio-memoir, analizza le persecuzioni e il razzismo, difendendo l'alterità culturale rom e sinti contro l'assimilazione forzata. Pavlović critica gli stereotipi e sottolinea l'importanza di rispettare le tradizioni e i tempi del suo popolo per una vera inclusione

L’ha intitolato Irriducibili- Alterità dell’anima zingara ed è il suo primo libro, scritto per unire i trattini della sua vita di attivista e riflettere sulla complessa identità rom e sinti perché Dijana Pavlović, attrice, mediatrice culturale e attivista nata in Serbia è sempre stata nel vortice e, scrivendo questo saggio-memoir, ha potuto mettere sulla carta la storia del suo popolo e meditare anche sui danni dell’assimilazione provocata da chi ha voluto a tutti i costi battersi per l’inclusione degli zingari, senza rispettare la loro alterità rispetto ai popoli che vivono dentro uno stato-nazione con confini (più o meno) definiti. Laureata all’Accademia d’Arte Drammatica di Belgrado, ha lavorato con diversi teatri milanesi e nel libro ha ricordato che all’inizio della sua carriera ometteva di essere serba.

E chissà se lo ha fatto perché all’età di sette anni la sua compagna di classe, dopo che lei aveva preso dieci e lode in matematica, le ha detto: «Tanto sei una zingara e tale sarai per tutta la vita, non importa quello che fai». E oggi dice, senza vittimismo: «So che vincere la battaglia per il riconoscimento della nostra cultura, appunto dell’alterità rom e sinti, è impossibile, magari però possiamo almeno provare a pareggiare». Perciò ha scritto Irriducibili- Alterità dell’anima zingara pubblicato da Edizioni Upre Roma che intreccia autobiografia, analisi storico-politica, riflessione filosofica e testimonianze. Si tratta di un testo che rivendica la legittimità di un sapere incarnato, non accademico e pone dei punti fermi per chi non sa in cosa consista l’alterità né conosce le persecuzioni durate mille anni e di come oggi quel razzismo “speciale” abbia trasformato il popolo rom e sinti in un capro espiatorio.

«L’irriducibilità non è solo la mia che pur vivendo tanto fra i gagé (i non rom, ndr) continuo ad essere fuori da ogni schema ma anche quella del mio popolo senza la quale non sarebbe sopravvissuto alle persecuzioni, al genocidio durante il nazismo, al razzismo, alle sterilizzazioni, alla schiavitù e al tentativo di annientare la sua identità nelle società democratiche che dura ancora oggi», spiega a VITA. Nel libro ricorre spesso a delle bellissime poesie di rom serbi ma il testo, come spiega lei stessa, «è un viaggio che parte dalla mia intimità e si pone una domanda inevitabile per ogni rom. Perché ci fanno questo? Perciò cerco di esplorare il meccanismo che ci colpisce da mille anni (da quando il popolo romanì si è spostato dall’India, ndr), cosa ci sia in noi di intollerabile e quale sia l’impatto di questo razzismo “speciale”». Ossia che non si basa solo sulla discriminazione ma anche sul negazionismo di una cultura non riconducibile ai paradigmi occidentali. 

Intanto cominciamo a sgomberare il campo dagli stereotipi e le chiediamo cosa pensi del tema “zingari e degrado”. «Se si lascia un campo senza acqua ed elettricità, possibilità di smaltire la spazzatura, si otterrà il degrado, altrimenti no. Certo, ci sono comunità che sono andate alla deriva, intrecciandosi con la criminalità. Ma guardiamo alle microaree in Emilia Romagna dove le persone di etnia rom e sinti hanno potuto autogestirsi. Un esperimento riuscito. Si deve poter trovare un equilibrio fra il diritto a vivere in una comunità con la propria famiglia e l’inclusione senza che questa si imponga, spezzando radici e legami». Gli zingari e la questione di genere. Si ritiene che le donne siano sottomesse, brutalizzate, obbligate ai matrimoni combinati. «Non è così. in un Paese come l’Italia afflitto dai femminicidi, bisogna ricordare che nelle comunità rom non ci sono femminicidi. Io ricordo solo tre casi di donne uccise in vent’anni mentre nella società italiana non passa giorno che non venga uccisa una donna. Si tratta di uno stereotipo amplificato. Non dimentichiamo che le società romanì, al momento della prima migrazione dall’India, erano matriarcali perché le donne padroneggiavano le arti esoteriche e la capacità di curare (arti che sono state per molti secoli tramandate principalmente per via femminile, di madre in figlia, ndr) e non dimentichiamo le figure come Santa Sara la-Kali o la Madonna dei sinti e rom omaggiata a Pavia nel maggio scorso».

L’autrice ci racconta che quando ammise in un’intervista di essere rom, le chiesero di fare una lettura sul genocidio rom e sinti nel giorno della Memoria e poi divenne anche mediatrice culturale in una scuola elementare. Fu così che scoprì tutte le contraddizioni delle scuola che esclude includendo o viceversa. «Gli alunni venivano certificati come nomadi, sebbene fossero stanziali, e con problemi di apprendimento per avere l’insegnante di sostegno. E sa cosa le dico? Oggi credo che le scuole non siano attrezzate per i bambini rom. Rifiutati, mal tollerati, diventano talvolta problematici come reazione. Moltissimi hanno un rifiuto, si sentono marchiati, fuori luogo e oltre a sentirsi a disagio, non imparano nulla, dubitano di loro stessi. E allora io mi chiedo perché non possano andare in scuole private come fanno ad esempio gli ebrei, dove la loro cultura irriducibile non venga rinnegata e ci sia una vera accoglienza che non si traduca in assimilazione. Soprattutto oggi che ci sono bambini nativi digitali, ogni alunno è diverso a modo proprio e le lezioni frontali non sono adeguate a trasmettere conoscenza. Per gli allievi rom, le scuole italiane sono delle bellissime case dove non possono entrare. Si tratta di un nodo che non è ancora stato sciolto». Tornando al libro, c’è un capitolo che parla del genocidio nazista: viene chiamato Porrajmos che significa divoramento, sbudellamento, ma in alcune varianti anche stupro o penetrazione. «Fu proposto negli anni 90 da Ian Hancock come parallelo della Shoah ma non tutte le comunità lo accettano perché si tratta di un concetto troppo crudo e parola tabù perché evoca le nostre parti intime. Perciò si usa anche Samudaripen, cioè “tutti morti”. Termine più neutro e dignitoso ma distante dal dolore reale, dal fatto che ci hanno sbudellati, poi sparso le nostre viscere e infine fatto finta di non vederle».

Probabilmente non sapremo mai con esattezza quanti furono i rom e i sinti a essere uccisi: più di un milione, secondo le stime più recenti. Ma alla fine cosa non sappiamo di questo popolo? Troppe cose che Dijana Pavlović prova a spiegare o meglio a sintetizzare: innanzitutto il tempo che non ha fretta ed è circolare. «Il tempo è quello che serve, che cura, quello che si può condividere. Nella nostra lingua esiste la parola ieri, oggi ma non domani. Per noi il domani non esiste, la vita è qui e adesso. E nella comunità è segnato da eventi significativi, le feste, i lutti, i momenti di ricordo. Così come la memoria non è cronologia ma intensità che si trasmette attraverso i silenzi, le storie, i rituali. Da qui nasce il conflitto fra il tempo della produttività occidentale e quello della relazione rom e la necessità di trovare un equilibrio se si ha un lavoro gagé. E poi lo spazio che è una configurazione del legame. Lo spazio è etico prima che fisico. Costruisce gerarchie ma non autorità. Gerarchie affettive basate sull’età, l’esperienza, la parola data. E se lo stato li pone ai margini in baraccopoli o container, i rom risignificano gli spazi con una resistenza sottile che fa parte della loro alterità». E poi la musica, la magia, la cultura orale, le regole definite dai loro tribunali che per esempio giudica e punisce, chi parla male dei morti, isolandolo. E tantissime altre cose che dovremmo sapere per comprendere l’irriducibilità di un popolo che ha superato tutto grazie alla propria alterità. Ebbene, Dijana  Pavlović, ha provato, quando si è sentita pronta, a farci questo dono. Anche perché probabilmente, fuori dagli stereotipi, dovremmo interrogarci sul motivo per cui rom significa una parola che abbraccia l’umanità intera: essere umano. 

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