Welfare
Sui migranti c’è una strategia della tensione
La strategia della tensione è studiata a tavolino, si nutre di decisioni improvvise, di blitz non comunicati e (un po’ a sorpresa in questo tempo di parole stentoree) anche di silenzi. Lunghi silenzi. Alla vigilia della presentazione del decreto sui migranti, la vera notizia è che dei «cambiamenti radicali» immaginati dal ministro dell’Interno Matteo Salvini sono a conoscenza praticamente tutti, tranne gli addetti ai lavori
di Diego Motta
La strategia della tensione è studiata a tavolino, si nutre di decisioni improvvise, di blitz non comunicati e (un po’ a sorpresa in questo tempo di parole stentoree) anche di silenzi. Lunghi silenzi. Alla vigilia della presentazione del decreto sui migranti, la vera notizia è che dei «cambiamenti radicali» immaginati dal ministro dell’Interno Matteo Salvini sono a conoscenza praticamente tutti, tranne gli addetti ai lavori: non i sindaci, che hanno intuito il giro di vite in arrivo sul sistema dell’accoglienza, ma non sanno ancora come cambierà in concreto il governo dei flussi sul territorio. Non il Terzo settore, a cui si deve sin qui (piaccia o meno) la gestione diretta di profughi e richiedenti asilo e a cui spetta il rapporto diretto con chi arriva nelle nostre comunità. Non le prefetture e la magistratura, che pure dovranno mutare pelle nella gestione di un fenomeno già diventato a parole solo un affare di ordine pubblico e di giustizia penale più che di integrazione e di politiche sociali.
D’altra parte, la strategia della tensione a questo punta: a non concedere pause all’opinione pubblica, a creare l’effetto-annuncio, a spiazzare continuamente chi chiede una tregua, dopo i casi “Aquarius” e (due volte) “Diciotti”, dopo l’estate lunga del razzismo imperante e le intemerate continue sui social network. Come alimentare, dunque, sapientemente tutto questo? Innanzitutto lasciando intendere, compiendo fughe in avanti inaspettate, trasformando le ritirate in nuove offensive. L’importante è che sappiano (o, meglio, credano di sapere) “i cittadini”.
Il caso dei centri Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, è in questo senso emblematico: ci sono 877 progetti attivi in tutta Italia, da Acireale in Sicilia a Vogogna in Piemonte, con 35.881 beneficiari in oltre 1.200 Comuni coinvolti. Sono storie edificanti di comunità che si sono spontaneamente candidate per fare accoglienza diffusa ed efficiente. La filosofia di queste strutture (che funzionano) è chiara: micro-accoglienza dei migranti in piccoli appartamenti, gestione dei percorsi di integrazione attraverso lo studio e la lingua. Adesso che fine faranno gli Sprar? Silenzio. Tutto tace, tutto è fermo. Immobile. Intanto si moltiplicano le denunce “dal basso” di associazioni e cooperative che gestiscono il fenomeno e temono sorprese negative a breve termine. Un precedente già c’è, in questo senso e riguarda i progetti presentati per i nuovi Sprar il 31 marzo scorso dalle realtà cooperative, soprattutto nel Nord Italia. Non c’è stata alcuna risposta nei termini previsti, cioè tre mesi dopo, nonostante le sollecitazioni di Anci, Alleanza delle cooperative e dello stesso Servizio centrale Sprar del ministero. Alla richiesta: «Perché?», la risposta è stata: «I progetti vanno bene, ma non servono più». Si cambia, dunque, ma non si dice.
Dire con troppo preavviso che cambierà tutto, anche ciò che del sistema migranti sin qui si è rivelato efficace, tradirebbe appunto la strategia della tensione. Che ovviamente prevede molto altro: investimento sulle strutture prefettizie, a partire dai Cas, i centri di accoglienza straordinaria (ma non era la Lega a voler privilegiare il ruolo dei sindaci?) allungamento dei tempi di permanenza nelle strutture, estensione del trattenimento degli irregolari.
Non solo, verrà abrogata la protezione umanitaria, con prevedibili incrementi dei contenziosi in sede giudiziaria e nuove (lunghissime) liste d’attesa per chi vorrà capire se e come la propria domanda d’asilo verrà esaminata. Tolti dai territori, privati della possibilità di conoscere le comunità in cui verranno inseriti, verrà meno per i cittadini stranieri giunti negli ultimi anni in Italia via mare e via terra, anche la possibilità di fare lavori di pubblica utilità, pensati anche al fine di una “restituzione” da parte loro, di quanto ricevuto in termini di ospitalità del nostro Paese.
Al limite, gli aspiranti rifugiati potranno limitarsi al tragitto tra i condomini in cui verranno ammassati e le sedi delle commissioni territoriali in cui le loro istanze verranno presentate. Lo scenario più verosimile sarà alla fine la nascita di nuovi ghetti, vere e proprie bombe sociali a orologeria: proprio ciò che primi cittadini e operatori del settore dell’accoglienza hanno chiesto a gran voce di scongiurare. E che chi ha la responsabilità politica della sicurezza del Paese dovrebbe responsabilmente evitare.
da Avvenire del 20 settembre 2018
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