Non profit
Teheran si toglie il velo
Il fermento della città nei giorni prima delle elezioni
di Redazione

Per la prima volta nella storia della capitale iraniana, i misfatti della politica entrano nel dibattito pubblico. In televisione.
Ma soprattutto è nei bar e sui taxi che giovani e anziani trovano il gusto di dire
la loro. Sempre combattuti
fra la voglia di novità
e l’orgoglio nazionale
Tutti parlano di politica a Teheran. Non sono tanto gli enormi manifesti che ritraggono i volti dei candidati alle presidenziali ad accoglierci appena fuori dall’aeroporto Imam Khomeini a suggerircelo, quanto piuttosto, nel traffico intenso e caotico della capitale, le foto dei favoriti appiccicate ai finestrini delle auto che si sfiorano continuamente sulle strade. In particolare incrociamo spesso il volto di Musavi, il riformista ex direttore dell’Accademia di Belle Arti, che sorride dai lunotti posteriori. Anche i tassisti improvvisamente sembrano professori di scienza politica ed esprimono la necessità di comunicare a chiunque le proprie preferenze: l’unico che può salvare l’economia iraniana, dicono per lo più, è l’attuale presidente Mahmmud Ahmadinejad, invece gli altri, i riformisti, vendono aria fritta.
Così anche al Sofreh Khaneh di Tajrish, dove si prende il tè, si parla di politica. Mentre sorseggio la bevanda mi faccio spiegare da un giovane di 28 anni perché, secondo lui, dovrei votare Ahmadinejad.
«È l’unico che dei soldi del governo non ha fatto un uso personale: in questi quattro anni di presidenza ha distribuito assegni familiari soprattutto nei villaggi e nelle campagne iraniane. Assegni da 70mila tuman al mese (circa 70 euro). I riformisti gli hanno detto: perché regali così i soldi del governo? Lui ha risposto: per anni i figli di chi ci ha governati hanno speso i soldi del governo all’estero. Lì hanno comprato case, aperto conti, studiato nelle università straniere con i soldi degli iraniani. Ora restituisco al popolo un po’ di ciò che gli appartiene».
Al Sofreh Khaneh entra un altro gruppo di giovani che si siede per fumare il ghalian, il narghilè. Sono tutti sostenitori di Musavi, immediatamente visibili perché indossano indumenti verdi: le ragazze un hejab verde, oppure un nastro verde attorno al polso: verde è il colore di chi si pregia del titolo di seyyed, cioè chi è diretto discendente del profeta Maometto. È il colore scelto appunto per la campagna elettorale di Musavi: «Musavi rappresenta il cambiamento per l’Iran. Noi siamo diventati gli zimbelli di tutto il mondo, per la politica estera di Ahmadinejad», dice uno di loro, e poi si rivolge al sostenitore di Ahmadinejad e scherzando gli dice: «Capisci, fascista?». Incredibile, l’ha chiamato “fascista”! Eh sì, anche l’ideologia politica è ormai divenuta un prodotto globale.
«Quella che sta vivendo l’Iran oggi è una nuova rivoluzione. Non è quella di trent’anni fa, ma per la prima volta in pubblico c’è un confronto politico e un pluralismo di voci», dice una giovane donna insegnante di Tai-chi. «All’inizio quando sentivo i dibattiti in televisione, per esempio quello tra Karroubi e Mussavi, ero talmente scioccata che, pensavo, oddio adesso li ammazzano. E invece tutte le sere se ne dicono di tutti i colori!»
In certi momenti mi sembra addirittura di ritrovare l’antico spazio dell’agorà, lo spazio dove nel passato della democrazia ateniese i cittadini si trovavano per parlare di politica. Non mi riferisco all’idea di uno spazio pubblico reale, come la piazza che scandisce i ritmi della città. Nella Teheran post rivoluzionaria, post khomeinista, post moderna, ecc. ecc., dove abitano più di 13 milioni di persone, non esistono piazze nel vero senso della parola. Ma tutti gli spazi in compenso diventano una pubblica piazza per discutere di politica.
Un esempio: un bimbo corre con una pistola giocattolo in un viale alberato e una anziana signora elegante con il naso rifatto lo guarda e gli dice: «Non sparare a noi, bimbo, vai ad ammazzare chi devi», e poi si gira verso di me: «Quel bastardo di Ahmadinejad, intendo». E così ha inizio un altro dibattito, un po’ riflesso di quello che si è sentito in televisione, un po’ opinione personale, un po’ modelli stranieri, un po’ utopie. Ma in tutto questo freme una grande, inevitabile voglia di cambiare, unita ad un intramontabile orgoglio nazionale.
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