Welfare
Territorio Zero e Reddito di Cittadinanza Attiva
Angelo Raffaele Consoli, presidente del Cetri-Tires, illustra il nuovo modello economico verso cui bisogna andare «ad alta intensità di lavoro e a molto più bassa intensità di capitale». Un modello in cui il Reddito di cittadinanza attiva può fare da motore
Fra i vari gruppi e frange del grande moto studentesco di contestazione del 1977, ve n’era uno più autoironico che politico che si era auto denominato “Gli indiani metropolitani”, che aveva al punto primo del suo decalogo una immaginifica proposta per la “retribuzione dell’ozio giovanile”.
Mi è accaduto che mi ritornasse in mente a questa proposta quando il tema del reddito di cittadinanza è stato impetuosamente portato alla ribalta dell’agenda politica italiana durante la campagna per le ultime elezioni politiche prevalentemente ad opera del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo.
Tale proposta ha destato grandi perplessità quanto al reperimento delle fonti finanziamento, perplessità che in verità non mi convincono sia perché le cifre di cui si parla (decine di miliardi di euro) mi paiono fortemente sovrastimate, sia perché i soldi per una iniziativa simile si possono certamente trovare in mille modi, come fanno tutti i paesi europei che applicano qualche forma di sostegno al reddito giovanile (alcuni di essi insigniti della tripla A da parte delle agenzie di rating quindi non necessariamente sull’orlo della bancarotta…). I miei dubbi, invero non insormontabili, non si indirizzavano verso il suo finanziamento ma verso la struttura indefinita di questa proposta.
In altre parole non mi risultava chiaro nella proposta di reddito di cittadinanza, quale fosse il rapporto fra lavoro e non lavoro (quindi “ozio”) all’interno di un provvedimento necessariamente destinato a rimediare ai problemi di carattere materiale ma anche psicologico che una situazione di inattività forzata genera in una persona specie se giovane e senza esperienza lavorativa precedente.
Come ci ricorda Luciano Gallino, per adeguarsi alle esigenze di mobilità estrema dei capitali sul mercato finanziario, il lavoro è stato soggetto a una progressiva mercificazione e “flessibilizzazione” e conseguentemente i lavoratori si sono dovuti adeguare ad una corrispondente “precarizzazione”. Questo fenomeno non è rimasto privo di incidenza sull’umore e sul carattere dell’essere umano: “da tante persone il lavoro precario è percepito come una ferita dell’esistenza, una fonte immeritata di ansia, una diminuzione dei diritti di cittadinanza che si davano per scontati…” (Luciano Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza Editore 2012, pag 169).
L’intuizione di collegare il reddito alla cittadinanza viene dunque da lontano. E c’è molto di più in essa che non la semplice azione meccanica di assistenza materiale, quasi una forma di elemosina, almeno nella interpretazione dei più rigidi economisti ultraliberisti.
C’è il senso di appartenenza ad una comunità che aiuta chi rimane indietro. C’è l’idea di un nuovo mondo nel quale si ricomponga il rapporto fra l’uomo e le risorse naturali all’insegna non della logica del profitto estremo, ma del soddisfacimento sobrio delle esigenze dell’essere umano, che ritorna così al centro dell’azione della Polis. In questo rapporto evidentemente il dare e l’avere non possono essere considerati separati o intermittenti.
Al tempo stesso va creato lavoro con strategie efficaci, adottando modelli economici ad alta intensità di lavoro, perché il Reddito di Cittadinanza non diventi sterile e cronica assistenza. E per questo non va riformato il mercato del lavoro ma la struttura dell’economia. Non vanno cambiate le politiche sociali ma le strategie economiche del Paese che vanno riformate mirando alla creazione di lavoro nell’economia reale e non solo alla creazione di valore finanziario / profitto nell’economia virtuale.
Queste nuove politiche non possono che ripartire dal territorio, come suggerisce il manifesto Territorio Zero (verso una società a emissioni, rifiuti e chilometro zero, www.territoriozero.org).
Infatti, se è vero che una comunità deve aiutare chi rimane indietro, vorrei kennedianamente sottolineare che anche chi rimane indietro deve aiutare la sua comunità. Naturalmente tale aiuto deve essere commensurato alle capacità e ai mezzi personali ma non è illogico aspettarsi che il destinatario del reddito di cittadinanza possa essere di aiuto alla società che lo sostiene. Prendiamo ad esempio il caso recente del “Guerrilla gardening” che ormai coinvolge decine di migliaia di giovani e meno giovani, recando ristoro alle derelitte aree verdi delle nostre città e alle comunità che le condividono. Un fenomeno spontaneo di lavoro volontario per la comunità non esclusivamente ma anche da parte di “chi rimane indietro” in rapida espansione in tutta la penisola.
Ma bisogna andare un passo più in là. Territorio Zero, ispirato alle visioni messe in sinergia di tre grandi pensatori del nostro tempo, Rifkin, Petrini e Connett, ci ricorda che in uno scenario economico basato sul rispetto delle risorse naturali, si alza enormemente l’intensità di lavoro rispetto allo scenario esistente basato sullo sfruttamento delle fonti fossili e concentrate e la dissipazione delle risorse naturali, uno scenario dove l’uomo ha una incidenza inferiore a quella del capitale, da cui discende la crisi occupazionale che stiamo vivendo, con conseguente concentrazione delle ricchezze in pochissime mani su scala nazionale, europea e mondiale. Nello scenario “Territorio Zero” che altro non è che la declinazione a livello locale delle politiche di Terza Rivoluzione Industriale auspicate da Jeremy Rifkin (La terza rivoluzione industriale, Mondadori 2012), le politiche virtuose sul piano energetico, dei consumi e dell’agricoltura, hanno in comune un tratto caratteristico fondamentale: il modello distribuito senza grandi impianti e grandi insediamenti produttivi, basato sulla creazione e la messa in rete di milioni di piccole centrali produttive di energia rinnovabile operate da milioni di produttori/consumatori, centinaia di migliaia di centri di raccolta e informazione per la chiusura virtuosa del ciclo dei prodotti e l’eliminazione del concetto stesso di rifiuto, il ritorno ad una agricoltura di qualità su piccola e piccolissima scala, interconnessa con le comunità locali attraverso la moltiplicazione esponenziale dei mercati di vendita diretta (“Farmer market”) dei gruppi d’acquisto (“Community support”) e della modernizzazione e de carbonizzazione delle attività di produzione e di trasformazione agricola.
Questo modello distribuito è ad alta intensità di lavoro e a molto più bassa intensità di capitale. Permette dunque di remunerare il lavoro e non necessariamente il capitale (che spesso si sostanzia in rendita parassitaria e speculativa disconnessa dalla sottostante economia reale), e permette di disinnescare a livello locale quelle politiche economiche irresponsabili spesso innescate a livello nazionale o europeo, che conducono a una depressione dei consumi e della ricchezza circolante e a un aumento della ricchezza accumulata e della disoccupazione. Jeremy Rifkin prevedeva il fenomeno già nel 1985 con il libro “La fine del lavoro” in cui parlò per primo di “jobless recovery” (ripresa senza occupazione) e non senza destare l’ironia dei soloni delle scuole economiche ultraliberiste. Poi quando la ripresa senza occupazione si è effettivamente manifestata, Rifkin ha ottenuto un amaro e tardivo riconoscimento della sua preveggenza. La verità infatti, diciotto anni più tardi, è di tutta evidenza: i vecchi modelli economici basati sull’energia convenzionale e le grandi centrali, non funzionano più e non creano più lavoro. Sono i nuovi modelli, quelli di Territorio Zero, che creano occupazione e PIL distribuito.
Lavora molta più gente in un sistema comunale “rifiuti zero” , con la soppressione della raccolta tramite cassonetti e la messa in campo di una rete effettivamente funzionante di “banche del rifiuto”, laboratori di riparazione, miniere urbane, circuiti di rivendita dell’usato, campagne di informazione alla cittadinanza per acquisti consapevoli, che non in discariche e inceneritori.
Lavora molta più gente in uno scenario energetico locale dove collaborano decine di migliaia di piccole e medie imprese per offrire ad altre imprese, ai cittadini, agli enti locali, alla comunità, servizi energetici integrati ad alto valore aggiunto (impianti rinnovabili di piccola taglia, sistemi di accumulo energetico a idrogeno e d’altro tipo, reti intelligenti e domotica, costruzioni a energia positiva, raffrescamento solare, irrigazione fotovoltaica etc), che non nella produzione di energia equivalente con il modello delle grandi centrali da fonti convenzionali.
Lavora molta più gente in uno scenario di agricoltura di filiera corta locale che nell’attuale modello di filiera lunga con macroscopici impianti agroindustriali e speculazioni finanziarie sulle derrate alimentari.
Stiamo però parlando di mestieri e professionalità che per la maggior parte non esistono ancora. Per crearle bisogna mettere in campo innanzitutto un grandissimo sforzo di riconversione produttiva e formazione professionale che sappia giocare d’anticipo sulla chiusura inevitabile delle grandi centrali termoelettriche inquinanti ed obsolete, provvedendo alla riqualificazione del relativo personale verso i mestieri della nuova energia.
In un futuro prossimo che per molti versi è già qui, invece di un ingegnere petrolifero o di un esperto di agricoltura intensiva, ci sarà bisogno di venti progettisti, installatori e manutentori di fotovoltaico tradizionale e organico, solar cooling, mini eolico verticale, elettrolizzatori a idrogeno collegati in una rete di smart grid… e nell’agricoltura di prossimità con manodopera locale riqualificata verso modelli de carbonizzati e biologici, sistemi di irrigazione fotovoltaica, refrigerazione solare, centri di compostaggio e mini impianti di biogas per i liquami aziendali, ma anche nuovi modelli di consumo locale tutti ancora da inventare (e dove esistono, da estendere).
Queste attività– i mestieri di Territorio Zero – non hanno ancora raggiunto la maturità e lo status di figure professionali riconosciute, e prima che vi arrivino è necessario passare attraverso una fase intermedia in cui esse verranno coperte principalmente sulla base di prestazioni volontarie o remunerate secondo meccanismi non inseriti nel mercato del lavoro ufficiale. O, meglio ancora, in contropartita della percezione del “Reddito di Cittadinanza Attiva” proposto da Pietro Ferrari Bravo sulle pagine di Vita qualche settimana fa.
Ci vuole poco: basta che i comuni e le amministrazioni locali adottino una strategia in due tempi:
· In un primo tempo devono abbracciare la filosofia “zero” (e francamente non vedo che altro possano fare in una situazione in cui le fonti convenzionali d’energia e le risorse naturali sono prossime all’esaurimento). In verità gli enti locali sono più vicini al cittadino, e hanno il dovere etico prima ancora che giuridico di garantire la valorizzazione delle proprie risorse naturali e energetiche. Attenzione, ho detto valorizzazione, non sfruttamento. Le risorse naturali vanno utilizzate in modo da permettere la loro rigenerazione in tempi compatibili con i cicli umani. Preservate per future generazioni.
· Poi devono mettere in campo piani di riqualificazione professionale e di avviamento ai “mestieri di Territorio Zero” per tutti coloro che godano del “Reddito di Cittadinanza Attiva”, evitando il corto circuito fra inoccupazione e inesperienza, che tiene fuori dal mercato del lavoro centinaia di migliaia di risorse umane che si avvierebbero altrimenti a un futuro di “ozio”, che non soltanto, dicevano i latini “è padre di tutti i vizi”, ma è anche fratello della disperazione. Mentre questo è il momento di diffondere speranza.
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