Economia

Trent’anni dopo la 381 ecco i valori che essa ha disseminato

Vi proponiamo un estratto di un interessante articolo di Carlo Borzaga: “Non vi è alcun dubbio che il Terzo settore italiano come lo conosciamo oggi – ed in particolare la parte impegnata nei servizi di integrazione sociale e lavorativa – ha essenzialmente una duplice radice: il volontariato organizzato e la cooperazione (di solidarietà) sociale”

di Carlo Borzaga

Non vi è alcun dubbio che il Terzo settore italiano come lo conosciamo oggi – ed in particolare la parte impegnata nei servizi di integrazione sociale e lavorativa – ha essenzialmente una duplice radice: il volontariato organizzato e la cooperazione (di solidarietà) sociale. Insieme, da un lato hanno sviluppato – a partire dagli anni ‘70 del ‘900 – riflessioni, strategie e modelli di servizi, dall’altro hanno portato avanti istanze di riconoscimento e di sostegno, tra cui in particolare le due leggi di cui quest’anno ricorre il trentennale. Due leggi che hanno poi aperto la strada anche allo sviluppo e al riconoscimento di altre forme organizzative – associazioni e fondazioni – in parte preesistenti e impegnate nella promozione della socialità, della cultura e dello sport, ed infine all’approvazione del Codice del Terzo settore, passando per leggi come quella sulle Associazioni di Promozione Sociale e sulle Onlus.

(…)

Questi in sintesi i valori che la cooperazione sociale ha introdotto e disseminato:

1. è stata la prima forma di impresa che per legge – la 381 – a statuto opera nell’interesse non solo dei suoi proprietari, ma più in generale della comunità ed in particolare dei soggetti più deboli, e quindi si caratterizza per l’etero-destinazione di parte del valore prodotto; ha così contribuito ad aprire la strada ad un generale ripensamento delle finalità dell’impresa di cui finalmente si comincia a intravvedere la luce;

2. ha modificato gli obiettivi della forma cooperativa e quindi i destinatari della sua attività: non più solo il perseguimento dell’interesse dei soli soci (mutualità intesa come forma di solidarietà chiusa) ma anche, se non soprattutto, quello di terzi in condizioni di bisogno (solidarietà aperta) e di conseguenza ha ampliato gli ambiti di attività in cui la forma cooperativa così modificata presenta dei vantaggi specifici anche nel reperimento delle risorse; senza l’esperienza della cooperazione sociale oggi non si parlerebbe neppure di cooperative di comunità;

3. consentendo la presenza di soci volontari e non ponendo veti all’assunzione del ruolo di socio a qualsiasi portatore di interesse, ha modificato la governance cooperativa in senso multistakehoder; la cooperativa sociale è di fatto la prima impresa multistakeholder – termine oggi diventato i moda – apparsa in un ordinamento giuridico;

4. ha dimostrato che i servizi sociali non vanno considerati solo come una voce di spesa o delle modalità di trasferimenti in kind e che quindi non sono destinati a dipendere totalmente dalle risorse pubbliche ad essi destinati, ma sono gestibili secondo modalità imprenditoriali, quindi recuperando risorse umane (i volontari ed i cooperatori), immobiliari (edifici non utilizzati e terreni abbandonati) e finanziarie (le banche) da più fonti e gestendole in modo da creare valore destinato però non esclusivamente ai proprietari, ma alla comunità di riferimento. Ha così generato posti di lavoro aggiuntivi – spesso sottraendoli all’economia familiare o informale – soprattutto per manodopera femminile e – nel caso delle cooperative di inserimento lavorativo per persone difficili da occupare – lavori buoni, in grande maggioranza stabili e soddisfacenti (più che quelli creati da altri soggetti, inclusi quelli pubblici, dove – anche se nessuno lo dice – il ricorso ai contratti a termine e alle collaborazioni coordinate e continuative è largamente abusato);

5. ha contribuito all’emergere del fenomeno dell’impresa sociale e successivamente alla rivalutazione dell’economia sociale a livello europeo e internazionale, promuovendo le prime iniziative di ricerca e confronto e innervando la stessa definizione di Emes, che riprende esattamente quella della cooperativa sociale italiana, soprattutto rispetto alla distribuzione parziale di utili; non a caso leggi del tutto simili o comunque ispirate alla 381 sono state approvate in numerosi Paesi europei e non solo.

Purtroppo, negli anni che sono seguiti all’approvazione delle due leggi, molte di queste innovazioni non sono state comprese e valorizzate. Amministrazioni pubbliche prigioniere dell’ideologia welfarista, ma impreparate o impossibilitate ad attivare e gestire i servizi sociali ed educativi di cui vi era bisogno hanno optato per il loro affidamento – previsto dalla legge 142 del 1990 – a organizzazioni di volontariato e soprattutto a cooperative sociali. Inizialmente ne hanno rispettato l’autonomia e garantito le risorse necessarie a garantire servizi di qualità, ma dopo l’approvazione del d.lgs. 157/1995 – applicativo in senso restrittivo della Direttiva comunitaria 50 del 1992 – hanno opportunisticamente – spesso solo per risparmiare qualche migliaio di euro – fatto crescente ricorso allo strumento dell’appalto sovente al massimo ribasso, privando progressivamente organizzazioni di volontariato e cooperative sociali di quell’autonomia organizzativa e nell’individuazione dei bisogni su cui avevano fondato il loro sviluppo.

Un processo massiccio a cui molte cooperative non hanno saputo opporsi anche per la debolezza su queste tematiche delle loro organizzazioni di rappresentanza, che però (e per fortuna) non ha interessato tutto il volontariato e tutta la cooperazione sociale: sono infatti molte le aree di intervento dove queste organizzazioni hanno mantenuto o stanno riconquistando ampi spazi di autonomia, sia nell’inserimento lavorativo (agricoltura sociale, riciclo e riuso di beni e materiali, accordi di rete con imprese private, ecc.) che nella gestione di nuovi servizi alle comunità.

La grande capacità di resilienza dimostrata poi nel corso della crisi pandemica conferma la generale tenuta del modello. Se è vero, come affermato da più parti, che il nuovo modello economico e sociale di cui si sente la necessità dovrà essere sostenibile e inclusivo, esso avrà bisogno non solo di politiche, ma anche di imprese più inclusive, come appunto hanno dimostrato di sapere essere le cooperative sociali e le altre imprese sociali in forma cooperativa per le quali si apre quindi una nuova fase di sviluppo anche, se non soprattutto, al di fuori dei settori tradizionali. Ovviamente se sapranno cogliere le opportunità che si presenteranno insistendo su almeno tre aspetti: puntando sull’originalità del modello, che consente di realizzare la partecipazione di diversi pezzi della comunità, in particolare di chi è in prima linea nel cercare di innescare processi trasformativi (ad esempio i giovani impegnati sui temi della transizione ecologica); superando il complesso di inferiorità rispetto alle altre imprese e alle amministrazioni pubbliche, favorito dalla lettura della loro evoluzione che qui si è cercato di chiarire; evitando l’errore di imitare le imprese convenzionali come da molte parti – a partire da fantomatici finanziatori – viene loro suggerito, tenendo presente che, al di là di quello che esse (incluse le società benefit e le B-Corp) e i loro sostenitori cercano di far credere, perseguono obiettivi diversi dalla coesione sociale realizzata occupandosi delle componenti più fragili delle comunità.

L’articolo integrale su “Impresa sociale”

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