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Tunisi: il viaggio tra le famiglie dei dispersi
Parlano gli attivisti dell'associazione “La terre pour tous” fondata nel 2013 dai chi ha perso un congiunto nei “viaggi della speranza”. I numeri sono incerti: qualcuno parla di 300 dispersi, i familiari dicono 500, altri ancora 700, anche se sono 262 i nomi inviati all’ambasciata italiana dal Ministero dell’Interno tunisino
di Redazione

“La terre pour tous”, “La terra per tutti”: si chiama così l’associazione che da inizio 2013 riunisce parte dei familiari dei dispersi tunisini. Un nome scelto non certo a caso, quasi un grido a ribadire che il diritto alla mobilità è per tutti, che non esistono persone di serie a o di serie b.
Incontro alcuni familiari in centro a Tunisi, decidiamo di infilarci in un piccolo caffè per poter parlare tranquillamente. «Vogliamo sapere la verità sui nostri dispersi» – dice Abdelwaheb Habboubi, illustrandomi gli obiettivi dell’associazione – «e fare in modo che si faciliti la mobilità delle persone e il sistema dei visti, per fare sì che non accadano più le tragedie in mare». Il “disperso” di Abdelwaheb è suo fratello Mohamed, 24 anni quando è partito: mi racconta che faceva il parrucchiere, guadagnando circa 6 euro al giorno. Nessuno sapeva della sua intenzione di imbarcarsi per l’Italia: quando Mohamed ha trovato l’imbarcazione su cui partire, ha venduto la sua moto, per pagarsi il “viaggio della speranza” con i soldi della vendita ed i risparmi. Prima di imbarcarsi da Sfax, una delle città da cui dopo il 2011 sono partiti la maggior parte dei tunisini, distante solo 225 km da Lampedusa, ha chiamato Abdelwaheb per comunicargli la sua decisione, ripromettendogli di farsi vivo appena giunto a destinazione. Era il 5 settembre del 2012 e quella chiamata non è mai arrivata.
Abdelwaheb tira fuori il suo cellulare e mi mostra una foto, un frame di un telegiornale italiano, in cui si vede, tra gli altri, il profilo di un ragazzo scendere da una barca: «È lui, sono sicuro – afferma -. Voglio sapere che fine ha fatto, è arrivato in Italia». Anche per le storie degli altri familiari si ripete lo stesso copione: nessuna avvisaglia della partenza, poi la scomparsa e il riconoscimento dei dispersi attraverso telegiornali italiani o francesi, o una chiamata all’arrivo e poi stop.
Werteni Om El Khir sta cercando di rintracciare il marito: «È partito il 29 marzo del 2011 – mi racconta -: all’inizio ho pensato che avesse voluto abbandonare me e i nostri tre figli. Poi, dovendo cominciare a lavorare per mantenerci, ho provato sulla mia pelle le difficoltà per andare avanti e ho capito che l’ha fatto perché voleva aiutarci, migliorare la nostra situazione economica». I familiari intanto continuano a snocciolarmi le date dei vari naufragi avvenuti negli ultimi anni, dati che sanno ormai a memoria.
«Prima, sotto Ben Alì, le partenze avvenivano nei vari quartieri. Ora da lì partono persone provenienti anche da città diverse – ci spiegano -. C’è un intermediario, qualcuno che è già stato in Italia e sa come funziona il tutto, ma che nessuno conosce direttamente». Il costo? Da 2000 dinari (circa 1000 euro, una cifra alta, considerando che lo stipendio medio si aggira sui 300 dinari) in poi a persona. Ahmed Rhimi prende il suo zaino, tira fuori un po’ di documenti scritti in arabo, tra cui spicca la fotocopia di un articolo di giornale, in cui si parla di lui e sua moglie: dopo la partenza del figlio la moglie ha tentato di darsi fuoco dalla disperazione e lui, nel tentativo di salvarla, porta ancora il segno di quel giorno sulle sue mani.
Samir Rawafi, padre di un altro giovane disperso, mi racconta dei suoi tentativi di richiedere il visto turistico, per poter raggiungere la moglie, da tre anni in Italia, ed aiutarla nella ricerca del figlio: «Dopo aver portato tutti i documenti necessari per la richiesta, mi hanno detto che se mi fossi dimenticato del discorso degli scomparsi l’avrei potuto ottenere subito». Un ricatto a cui non ha ceduto, ritrovandosi nuovamente punto a capo. I familiari in questi anni hanno spesso protestato davanti al ministero dell’interno tunisino e all’ambasciata italiana: «In una di queste manifestazioni eravamo talmente disperati da urlare “Fate tornare indietro Ben Alì!» – riferiscono -.
Se il sistema dei visti fosse più semplice, se la mobilità fosse garantita per tutti, a quest’ora i nostri figli sarebbero ancora vivi. Chi parte sa che la situazione in Italia non è delle migliori, anche se è sempre meglio di qui, ma vedendosi continuamente rifiutate le domande per i visti, non vede altra alternativa se non quella di imbarcarsi. Se invece si potesse andare e venire senza problemi, se si potesse restare qualche mese in Europa, tornare in Tunisia e poi ripartire senza di nuovo la trafila per i documenti, non si sceglierebbe questa strada”. Denunciano la presenza di un’associazione tunisina in Italia che ha cercato di lucrare sul loro dolore, facendosi pagare con la scusa di sapere dove si trovava il familiare disperso, per poi sparire subito dopo aver ricevuto i soldi.
«Se queste persone sono tutte morte in mare, che fine hanno fatto i loro cadaveri? – mi domandano, perplessi, i familiari – Se invece sono morte in Italia, dove sono i loro corpi?». Sono preoccupati, temono che i loro cari possano essere finiti in un giro di traffico di organi. Preoccupati ma ancora speranzosi e decisi a impugnare una causa internazionale contro il governo italiano e tunisino.
«Da marzo 2011 – spiega Messaoud Romdhani del FTDES, Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali – centinaia di famiglie ci hanno contattato per segnalarci che non avevano più notizie di un familiare partito per l’Italia. Noi cerchiamo di assisterle nelle loro mobilitazioni per fare arrivare le loro rivendicazioni al governo tunisino. Sono stato personalmente in Italia due mesi fa, in una riunione al Senato nella commissione per i diritti umani. Vorrei stabilire un contatto tra il governo italiano e tunisino e la società civile. Ho proposto anche di lasciarci entrare nei Cie per cercare i dispersi: molte madri sono convinte che i loro figli siano vivi, ma detenuti lì. Io credo che probabilmente qualcuno sia scappato verso altri Paesi. I nostri politici hanno altre priorità, pensano alle prossime elezioni e hanno dimenticato questa vicenda». E conclude: «La migrazione fa parte dello stato del mondo. Perché le persone non possono muoversi liberamente? Gli immigrati non sono sempre portatori di violenza, non bisogna nascondere le proprie responsabilità dietro queste scusanti. Il problema poi è sempre considerato dal punto di vista securitario. Frontex, Eurostar e nessuno riesce a fermare questo fenomeno: finché ci sarà la povertà, ci sarà sempre qualcuno che si getterà in mare per un futuro migliore».
I numeri dei dispersi sono incerti: qualcuno parla di 300, i familiari dicono 500, altri ancora 700, anche se sono 262 i nomi inviati all’ambasciata italiana dal Ministero dell’Interno tunisino, mentre minore è il numero delle impronte digitali che sono state direttamente inviate al Ministero dell’Interno italiano, senza nessun riscontro. «Per quanto riguarda la difficoltà nell’ottenere i visti, bisogna fare un distinguo – spiega Antonello De Riu, primo Consigliere dell'Ambasciata italiana a Tunisi -. Per i visti di lavoro dapprima vi erano gli ingressi per lavoro subordinato attraverso il sistema delle quote: il Ministero dell’Interno fissava la disponibilità e poi la ripartiva tra i diversi Paesi. Per la Tunisia di solito erano 5 mila ingressi. Da fine 2011 questo sistema si è interrotto, ma si sta lavorando per i visti di lavoro subordinato stagionale, il cui permesso di soggiorno ha una durata limitata ai sei o nove mesi. Per il visto turistico la trafila è un’altra, e presenta maggiori difficoltà».
Per quanto riguarda i familiari dei dispersi, De Riu sottolinea gli scambi intercorsi tra i due Paesi: «Capisco il lato emozionale, la disperazione di queste famiglie che hanno perso un loro caro, ma ci siamo adoperati per poterli aiutare, per quello che ci era possibile. Tra il 2011 e il 2012 ci sono stati scambi intensissimi tra i nostri Paesi riguardanti i dati biometrici dei dispersi e in un secondo momento anche le impronte digitali. Li abbiamo cercati nei Cie, ospedali e centri di accoglienza. Abbiamo anche dato la possibilità ad alcuni familiari di andare in Italia per cercarli personalmente. L’ipotesi è che siano poi andati in altri Paesi, ma considerando il legame dei tunisini con la famiglia, come mai nessuno si fa vivo?».
«Quello delle famiglie è un movimento molto forte – spiega Federica Sossi, docente di Estetica all’Università di Bergamo e attivista del collettivo femminista “leventicinqueundici”, sin da subito attivatasi per la faccenda -, il primo del genere che riunisce le famiglie dell’altra sponda del Mediterraneo. Il nome dell’associazione “La terre pour tous” è stato preso dalla dicitura che scrivevamo sui cartelloni durante le manifestazioni a sostegno, slogan a sua volta ripreso da un’intervista a un migrante tunisino incontrato nel 2011, in un Cie, in cui raccontava che era venuto per poter respirare un po’, perché la terra è di tutti».
Da maggio 2011 Sossi si è recata spesso in Tunisia, per poter appunto affiancare i familiari nelle loro richieste, andando anche a Lampedusa. Diverse le iniziative del collettivo a sostegno dei familiari: dalla campagna “Da una sponda all’altra: vite che contano”, all’ultimo appello “Esigiamo i vostri saperi”, in cui si chiede all’Ue la formazione di una commissione d’inchiesta per mettere a disposizione dei familiari le proprie informazioni.
Nell’agosto 2013 le famiglie hanno inviato anche un video-appello a Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, ricevendo il suo sostegno.
«Quando abbiamo chiesto il confronto delle impronte digitali – prosegue Sossi – le istituzioni non ci hanno risposto subito. Senza contare che le persone sono state ridotte a “storie di impronte”.
I tunisini partiti verso l’Italia non hanno fatto altro che declinare la loro rivoluzione: come si può parlare di libertà senza avere la libertà di movimento? È un modo di ribellarsi allo spazio europeo e al sistema dei visti». L’impegno di Sossi non finisce qui: «Sto cercando di capire se vi sia la possibilità di un confronto con dna per cinque corpi ritrovati dopo il naufragio del 3 ottobre scorso, che si trovano a Lampedusa. Sarà difficile a causa delle lungaggini burocratiche e dell’indifferenza da parte di entrambi gli Stati. Ma le famiglie hanno il diritto di sapere se si tratta dei propri figli o meno». Intanto martedì 15 luglio le famiglie scenderanno di nuovo per le strade di Tunisi per fare sentire la propria voce. Nella speranza che, questa volta, non rimanga inascoltata.
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