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Tutte le sfidebdi Obama l’africano
gli usa alla svolta Darfur, Somalia, Nord Kivu: scocca l'ora di una nuova geopolitica?
di Redazione
Un intero continente attende le mosse del primo inquilino nero della Casa Bianca. Che per esempio, sul Congo, ha già in serbo un piano… D al 20 gennaio, data in cui Barack Obama sarà ufficialmente investito della carica di presidente degli Stati Uniti d’America, la geopolitica internazionale cambierà pelle. O meglio, secondo le promesse fatte dall’ex senatore dell’Illinois durante la campagna elettorale, a cambiare sarà il modo con cui la più potente diplomazia del pianeta intende affrontare il mondo. E l’Africa non fa eccezione. Anzi, essendo Obama il primo presidente nero eletto nella storia degli Usa, per di più con origini keniote, l’attenzione sarà doppia. Dopo aver passato la notte del 4 novembre a cantare e a ballare in nome del “figliol prodigo”, c’è da giurare che i fans africani di Barack seguiranno con particolare interesse le mosse della Casa Bianca in terra d’Africa.
un’agenda già bollente
Finora, di certezza, ce n’è soltanto una: al pari del Medio Oriente, le sfide africane si annunciano colossali. Come ricorda Sophie Langlois , editorialista di Radio Canada, «nel 2009 Robert Mugabe continuerà ad aggrapparsi al potere e negare gli effetti devastanti provocati dal colera. La crisi alimentare si intensificherà, mentre secondo le Nazioni Unite la malnutrizione ucciderà milioni di bambini. Nell’Est del Congo, ribelli e militari continueranno a violentare ragazzine e dilapidare le risorse del Paese, il tutto lontani dalle telecamere e facendo finta di volere la pace. Quanto al Sudafrica, dovrà sì eleggere un nuovo presidente, ma l’Anc (il partito di Mandela, ndr ) non smetterà di governare con le tipiche derive di un partito unico. Infine, l’Africa dovrà fare i conti con gli ivoriani, che non vedono l’ora di recarsi alle urne per un voto non privo di rischi di violenze post elettorali».
Come se non bastasse, il team di Obama dovrà fare i conti con gli impatti della crisi finanziaria, le continue tensioni che alimentano la guerra in Darfur, la presenza di Al Qaeda in Somalia e nei Paesi della fascia sahariana e gli appettiti di mezzo mondo per le sue sempre più preziose risorse naturali e minerarie.
Gran parte del lavoro verrà assegnato a Susan Rice, neo segretaria di Stato agli Affari africani. Nota per il suo carattere intransigente e la sua sensibilità per i diritti umani, la Rice dovrà trasformare in realtà il desiderio di Obama di chiudere i conti con le politiche aggressive di Bush per privilegiare una politica estera incentrata sul dialogo. La partita non si annuncia per niente facile. Tanto più che l’Africa sta attraversando un periodo decisivo per il suo futuro: con la penetrazione della Cina, una parte della leadership africana rischia di approfittare della politica di non ingerenza promossa negli ultimi anni da Pechino per tornare ai vecchi vizi del passato: corruzione, “bad governance” e violazioni continue dei diritti civili.
Una ricetta per il Congo
Ma vediamo le sfide sul breve termine. In cima alla lista delle emergenze umanitarie c’è, ovviamente, il Congo. Considerata dalla comunità internazionale una patata bollente, la guerra in Kivu offre in realtà all’amministrazione Obama l’opportunità di chiudere il conflitto con una proposta originale. L’idea, sintetizzata dall’ex sottosegretario agli Affari africani, Herman Cohen dalle colonne del New York Times , punta tutto sulla dimesione economica del conflitto. «Il principale responsabile della violenza è l’insurrezione dei Tutsi congolesi», spiega Cohen, «il cui capo è Laurent Nkunda. Le sue truppe sono armate e finanziate dal Rwanda. Quest’ultimo non intende rinunciare a delle risorse che rapresentano buona parte del suo prodotto interno lordo, ma che il governo congolese ha il diritto di rivendicare a beneficio del proprio popolo».
Ora, prosegue Cohen, esiste una sinergia economica naturale tra il Congo dell’Est e i Paesi dell’Africa orientale (Rwanda, Burundi, Tanzania e Uganda). «Obama dovrebbe nominare un negoziatore incaricato di proporre un mercato comune che include tutti questi Paesi. Questo accordo autorizzerebbe la libera circolazione delle persone e dei beni, garantendo alle imprese rwandesi l’accesso alle risorse minerarie e alle foreste congolesi». I prodotti fabbricati continuerebbero ad essere esportati via Rwanda. «La grande svolta», assicura Cohen, «starebbe nel pagamento di diritti e di tasse al governo congolese. In controparte, le imprese rwandesi potrebbero aumentare il loro mercato, quindi i loro fatturati».
Dulcis in fundo, la libera circolazione delle persone «che svuoterebbe i campi di rifugiati, consentendo a Paesi con forte densità di popolazione come il Rwanda e il Burundi di fornire manodopera al Congo e alla Tanzania. Se un tale mercato comune fosse instaurato, Rwanda e Congo non avrebbero più la necessità di ricorrere alle armi. E senza il sostegno dei governi, i gruppi combattenti sarebbero integrati negli eserciti regolari». Tra guerra e pace, Obama dovrà scegliere.
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