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Tutti pazzi per l’Urbex: che cos’è l’esplorazione urbana e perché piace tanto agli adolescenti
Sono sempre di più i giovanissimi che si avventurano nei luoghi abbandonati della città: una cultura che affonda le sue radici nell’arte e nella fotografia, ma che i ragazzi reinterpretano per prendersi spazi e costruire la propria identità individuale e collettiva. Un'inchiesta

Non solo avventura, non solo brivido, non solo evasione né tanto meno trasgressione. L’Urbex – abbreviazione di Urban Exploration – è «uno dei modi in cui i ragazzi si riappropriano delle città che li estromettono e li fanno sentire orfani di luoghi e spazi in cui costruire la loro identità e soprattutto la loro reputazione»: così Francesca Antonacci, docente di Pedagogia del gioco e di Pedagogia dei linguaggi artistici presso l’Università di Milano-Bicocca, definisce il significato e il senso di un’attività tutt’altro che recente, ma che nell’ultimo decennio ha preso piede tra i giovani e giovanissimi, specialmente nelle grandi città.
L’idea è semplice e anche abbastanza spaventosa: si cerca un luogo abbandonato – un edificio pubblico o privato, più o meno grande, più o meno vecchio – e si va ad esplorarlo: da soli, ma preferibilmente in gruppo, spesso con l’ausilio di app che mappano questi luoghi, di notte più che di giorno. L’impresa è quasi sempre avventurosa e spesso improvvisata, anche se così non dovrebbe essere (Cristiano La Mantia del collettivo “Ascosi Lasciti” ci spiega qui perché): non è raro che ci siano muri da scavalcare, ostacoli da superare o strutture pericolanti, che richiedono una dose non solo di coraggio, ma anche di abilità. A partecipare alla spedizione possono essere pochi intimi, o un gruppo più allargato di amici o conoscenti, che semplicemente condividano questa passione. C’è chi lo fa una volta ogni tanto, chi trasforma l’Urbex nella principale attività del tempo libero e della socialità.
Che sia un passatempo pericoloso e illegale non c’è dubbio: tanto che gli incidenti non mancano e le denunce neanche. C’è però un’altra faccia della medaglia, che è quella che ci interessa esaminare: attraverso l’urbex, i giovani ci dicono qualcosa e lo fanno, il più delle volte, in modo educato e rispettoso. Ci dicono che hanno bisogno di spazi, per costruire la propria identità personale e sociale. E che se spazi per loro non ci sono, loro vanno a cercarli e conquistarli. Superando la paura – o forse ricercando anche quella – per scoprire che l’unione fa la forza e fa pure il coraggio.
Una storia lunga quasi un secolo
L’urban exploration affonda le sue radici negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso: allora, soprattutto gli appassionati di fotografia iniziarono a documentare spazi industriali dismessi, tunnel sotterranei e edifici in rovina, attratti dal fascino del mistero e dall’estetica decadente. Successivamente, tra gli anni ‘70 e ‘80, quest’attività si è organizzata e diffusa soprattutto nei Paesi anglosassoni: nacquero allora gruppi e comunità dedicati a queste esplorazioni, spesso legati a movimenti alternativi e alla cultura punk, che valorizzavano la ricerca di spazi periferici e in disuso.
A partire dagli anni 2000, soprattutto grazie all’uso di internet e dei social – in particolare Flickr, YouTube, Instagram – l’urbex si è diffuso, diventando sempre più visibile con la condivisione di immagini, video, narrazioni.
Dagli adulti ai giovanissimi
Originariamente e per un bel po’ di tempo, l’urbex è stato quindi appannaggio soprattutto di artisti, per lo più adulti, a volte politicamente e culturalmente connotati. Negli ultimi anni invece, in particolare dopo il Covid, i giovani e i giovanissimi hanno scoperto l’urbex e l’hanno fatto proprio, declinandolo rispetto ai propri gusti e soprattutto alle proprie esigenze. L’urbex smette così di essere un’esperienza artistica e fotografica e diventa un’esperienza sociale, identitaria, quasi di iniziazione: un’attività attraverso la quale i ragazzi di riappropriano di spazi in città che ai giovani sempre più sottraggono e negano spazi. Con il venir meno di piazze e luoghi di aggregazione informale, l’esplorazione di luoghi abbandonati e solitari diventa un modo per sperimentare la propria identità personale e soprattutto di gruppo, rafforzandola attraverso il superamento del rischio, del pericolo e della paura.
Ghost Explorer: «Mi dà libertà»
Ed ecco le testimonianze di alcuni giovani “urbexer”, raggiunti tramite i gruppi dedicati sul social network Reddit, che garantisce quell’anonimato che tanto sta a cuore a chi si muove tra le ombre e le rovine. E che, insomma, fa parte del “gioco”.
“Ghost Explorer” – mi chiede di chiamarlo così – ha 16 anni e vive in Lombardia: «Faccio urbex da relativamente poco, sei mesi, però ho già fatto tante esperienze: la peggiore al manicomio di Mombello, dove una signora ha detto che ci stavano “gli spacciatori col machete”, ma alla fine non sono mai stato né inseguito né aggredito, né mi sono preso infezioni o malattie. Conosco l’urbex da tanto tempo, ma non avevo mai considerato l’idea di andare a farlo veramente. Ci vado con degli amici, a volte siamo in due o tre; secondo me è meglio essere il meno possibile per non dare nell’occhio, ma abbastanza da allontanare qualsiasi aggressore. Faccio urbex sia perché mi dà libertà, sia perché esploro edifici che rimangono nell’ombra, di cui nessuno parla per la loro brutta apparenza. Da una parte è curiosità, dall’altra c’è il fatto che, sebbene io viva in una grande città, oramai non c’è chissà che cosa da fare. Una cosa che però non mi piace è che quando dici che fai urbex o ti danno del coglione, perché rischi tanto andando a casa di tossici e spacciatori (e questo è vero), oppure (come succede a me) ti prendono per un ragazzino stupido e ingenuo che come tutti alla mia età vogliono sentirsi liberi ed esplorare, però poi “si mettono in brutte situazioni”: ma è ovvio che ho del buon senso e capisco prima, facendo sopralluoghi, osservando e documentandomi se il posto è sicuro o meno. Comunque forse pochi sanno che chi va a fare vero urbex sicuramente non tocca niente, cioè lascia tutto così come trova. E non va lì solo con la torcia del telefono e tanto coraggio, ma si equipaggia portando il necessario per le emergenze. Non fa casino e non dà fastidio alle persone che vivono lì. Di solito quando vado in un posto o è perché è grande e voglio esplorarlo, oppure perché ha una storia interessante, come il manicomio di Mombello o una vecchia fabbrica esplosa della prima guerra mondiale”».
Come far comprendere e accettare a un adulto questa passione? «Io direi semplicemente che faccio esplorazione urbana, come tanti fanno escursioni in montagna perché amano esplorare la natura: ecco, a me piace esplorare edifici abbandonati».

Danny: «Mi affascina il mistero»
Danny invece – questo il nome che ha scelto per l’intervista – oggi ha 19 anni e vive in provincia di Bergamo: «La mia esperienza con l’urbex inizia nel 2016, in quarta elementare, guardando video di gente che esplorava luoghi dimenticati e che documentava vecchi frammenti di vita quotidiana. Questa passione è rimasta relegata dietro uno schermo fino a fine 2024, quando ho deciso di “passare all’azione”: la mia prima esplorazione l’ho fatta a dicembre 2024 in solitaria, dopo poco tempo mi sono unito ad altri coetanei, che successivamente ho abbandonato per varie ragioni. Così sono tornato a fare esplorazioni in solitaria. Solitamente cerco i luoghi tramite varie applicazioni, in particolare uso “Urbexology.com” e dopo mi aiuto con Google Earth per visualizzarli meglio e capire il loro stato, vedere se siano pericolanti e soprattutto se siano ancora accessibili, in quanto spesso possono essere murati o addirittura essere stati rasi al suolo. Faccio urbex per il fascino e l’alone di mistero che solo i luoghi abbandonati sanno dare. A dicembre scorso, insieme ad alcuni vecchi compagni di esplorazione, ho creato un piccolo gruppo di nome “Lost place team”, chiamato anche “LP team”, tuttora disponibile sia su Instagram che su Reddit. Per ora ci sono due membri fissi, io e un altro ragazzo conosciuto da poco, che ha questa stessa passione».
Lorenzo: «Luoghi che raccontano una storia»
Lorenzo vive in provincia di Firenze: «Ho iniziato a fare urbex da qualche mese perché, abitando in un piccolo centro urbano di qualche decina di migliaia di abitanti, le attività da fare si riducono sempre di più con il passare del tempo e con la chiusura dei locali. È iniziato tutto per caso, un giorno in cui un mio amico si era messo in testa di voler entrare in una villetta vicino al posto in cui ci troviamo di solito. Solo che la villetta era completamente chiusa ed erano presenti delle luci. Quindi, dopo aver fatto desistere il mio amico, ho voluto trovare un posto più “adatto” a questo genere di esplorazioni. Banalmente, ho cercato su Google “urbex”, affiancato dal nome della mia città. E mi è uscita una mappa con una serie di posti. Non c’era granché nelle vicinanze, oltre a posti che già sapevamo essere in pessimo stato, tipo vecchie fabbriche. C’era però una villa, a 5 minuti di distanza. Quindi siamo andati: era una villa abbandonata, conservata benissimo, con delle camere da letto ancora intatte e i letti ancora rifatti. Piena di libri, vestiti, pellicce e addirittura un trattore e due pianoforti. Da lì è partita la mia ricerca per posti simili, perché quello che cerco (almeno io) sono posti rimasti intatti, che raccontino una storia, delle fotografie ferme nel tempo e che ti facciano sentire in un’atmosfera magica. Ma anche posti con panorami mozzafiato, o con murales affascinanti di artisti moderni».
Kriz: «Ho rischiato di morire»
Kriz ha 15 anni e vive a Milano. La sua è la testimonianza più forte. «Ho iniziato a fare urbex a 11 anni. Ho scoperto questa passione perché dentro i luoghi abbandonati posso essere più me stesso e sono un amante del rischio. Vado con dei miei amici, cerchiamo soprattutto adrenalina, per cui preferiamo andare sui tetti per fare selfie estremi o cercare la visuale migliore. A 13 anni ho rischiato di morire perché ero salito sul cornicione di un cinema abbandonato e mi è crollato il pavimento sotto i piedi: sono salvo grazie a un tubo di ferro incastrato nel muro. Ora cerco soprattutto di raggiungere edifici alti e mi piace essere il primo a scoprire un posto. I miei genitori mi danno sempre contro, perché dicono che gioco con la mia vita, ma una passione è una passione e vorrei anche diventare famoso grazie a questo. Le mie prossime tappe saranno per forza i tunnel dei treni».

Le regole da rispettare
A proposito di tetti, di imprese e di sfide, Cristiano La Mantia mette in guardia: «L’urbex ha delle regole e vanno rispettate. L’obiettivo non è scattarsi foto belle, ma riscoprire e valorizzare le radici». Per questo già 15 anni fa, da un’idea di Alessandro Tesei e Davide Calloni, è nato il collettivo Ascosi Lasciti, la più importante realtà nazionale che si occupa di esplorazioni urbane. Un collettivo che si articola in sedi regionali, ciascuna con il proprio referente, il quale periodicamente pubblica sul sito le foto e le storie delle proprie esplorazioni. Da questa esperienza, che ha conosciuto negli anni uno sviluppo straordinario, è nata l’associazione culturale, di cui La Mantia è presidente.
Quali indicazioni dare quindi ai ragazzi e le ragazze che sempre più numerosi si avvicinano all’urbex? «Innanzitutto rispettare le regole: scarpe adatte, abbigliamento adatto, andare di giorno e non di notte. Ma soprattutto studiare molto bene prima e non improvvisare mai: più di un ragazzo è morto solo per scattarsi una foto da un tetto pericolante. Questo non deve succedere. Servono consapevolezza, studio e preparazione. A queste condizioni sì, può essere un’attività molto formativa e importante anche per i più giovani, che hanno bisogno di avventura, di mistero e di una giusta dose di rischio per crescere come persone e come gruppo».
Questo è il racconto del perché gli adolescenti amano l’urbex. Qui puoi leggere invece una riflessione con gli esperti Francesca Antonacci, Cristiano La Mantia e dell’antropologo francese David Le Breton.

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