Europa & Sostenibilità
Ue, sì alla due diligence ma in Italia è corsa a renderla innocua
Approvata, dopo un cammino tortuoso da dicembre a oggi, la Direttiva europea sulla Diligenza dovuta che obbliga circa 6mila aziende di grandi dimensioni a essere responsabili della loro filiera, in termini di sostenibilità. Soddisfazione diffusa fra gli attivisti, anche se gli obiettivi iniziali coinvolgevano più realtà produttive. Tuttavia è di qualche giorno fa l'appello al Mef di Confindustria, Abi, Ania e organizzazioni di professionisti per attenuarne l'applicazione. Eppure gli Esg parrebbero il mantra di ogni impresa. Anticipiamo la newsletter ProdurreBene, riservata agli abbonati di VITA
È stata approvata stamane dal Parlamento europeo la direttiva sulla Due diligence, la Cs3d, come veniva spesso indicata nel linguaggio comunitario (nella foto sopra, uno screenshot dell’esito del voto in aula). Un provvedimento che obbliga le aziende – per ora solo le grandi, meno di 6mila – a essere responsabili di cosa accade nella loro filiera. Un testo rimaneggiato, rispetto a quello su cui era stato trovato l’accordo alla fine dello scorso anno, al Coreper. E per questo il percorso s’era fatto accidentato, con compromessi successivi (ne scrivemmo qui). Le reazioni oggi sembrano improntate al “bicchiere mezzo pieno”: scrive Andreas Rasche, preside della Copenhagen Business School sul suo profilo LinkedIn, che «nonostante sia una versione annacquata, introduce la hard law in un settore in cui gli obblighi giuridici sono assolutamente necessari». Ma è proprio questo il punto: perché per esempio in Italia sono cominciate le grandi manovre per ridurre l’impatto di questa responsabilità. Al tema abbiamo dedicato, lunedì, l’apertura della nostra newsletter ProdurreBene, riservata agli abbonati di VITA. Ne riproduciamo in chiaro la prima parte.
Esg? Un attimino
Se qualche inguaribile ottimista della sostenibilità aveva pronta la bottiglia di spumante italiano per festeggiare la Due Diligence, la direttiva Cs3d sulla responsabilità delle filiera diventata un tormentone, attesa al voto della plenaria del Parlamento europeo fra mercoledì e giovedì, forse può rimetterla in cantina. No, non è per il progressivo innalzamento delle soglie che, come abbiamo scritto nelle precedenti newsletter, obbliga solo alcuni grandi gruppi, ma perché dal nostro Paese arrivano segnali un po’ sinistri sul fronte della Csrd, la direttiva sulla responsabilità sociale d’impresa e sui suoi obblighi di rendicontazione. Giovedì 18, una maxi nota congiunta delle più potenti organizzazioni di impresa del Bel Paese ha infatti annunciato una richiesta al ministero dell’Economia e delle Finanze – Mef per «definire un sistema sanzionatorio proporzionato sul reporting di sostenibilità delle grandi società».
Stiamo parlando di Abi (banche), Ania (assicurazioni), Assirev (revisori dei conti), Assonime (società per azioni), Confindustria, e Consiglio nazionale dei dottori commercialisti: praticamente le finanze, l’industria, le professioni della consulenza. Come un sol uomo, i rappresentanti di tutti questi comparti si dicono preoccupati della «definizione del sistema di vigilanza ed enforcement degli obblighi di rendicontazione societaria sulla sostenibilità che la direttiva europea assegna agli Stati membri alla luce dei principi generali di efficacia, proporzionalità e dissuasività».
Il punto, come si spiega più chiaramente in seguito, è che «le informazioni di sostenibilità riguardano non solo informazioni storiche ma anche piani e obiettivi prospettici; in secondo luogo, l’area di raccolta delle informazioni trascende quella tradizionale del gruppo, per estendersi alla catena del valore, comportando una minore possibilità di controllo delle informazioni fornite da terzi e in molti casi la necessità di ricorrere a stime e valutazioni discrezionali; in terzo luogo, gli standard di rendicontazione sono stati appena definiti e non ancora sperimentati e gli standard di attestazione sono ancora in corso di definizione; in quarto luogo, l’adozione del concetto di doppia materialità alla base dell’individuazione delle informazioni da fornire nel rendiconto di sostenibilità comporta un notevole ampliamento delle responsabilità degli amministratori rispetto al criterio ormai consolidato della materialità finanziaria. In conseguenza di queste peculiarità sostanziali, si ritiene che l’impianto sanzionatorio, delineato nello schema di decreto di recepimento messo in consultazione dal Mef debba essere adeguatamente riproporzionato, differenziandolo rispetto a quello oggi applicabile per la rendicontazione di bilancio, anche in linea con quanto stanno definendo gli altri principali paesi europei».
L’appello: «Noi non c’entriamo»
I firmatari dell’appello a Giancarlo Giorgetti suggeriscono anche la soluzione: adottare, almeno in una prima fase, «le previsioni già oggi contenute nel nel D.Lgs. 254/2016 per le cosiddette dichiarazioni non finanziarie, prevedendo inoltre specifiche limitazioni alla responsabilità di amministratori e revisori rispetto alle informazioni fornite da terzi e alle informazioni di carattere previsionale e prospettico ed escludendo i richiami alla disciplina penale relativa alle false informazioni sociali, che assimilano la disciplina sanzionatoria sulle informazioni di sostenibilità a quella applicabile alle informazioni contabili di bilancio». Insomma, gli Esg vanno bene, benissimo, per farsi belli su LinkedIn, per gonfiare il petto col brand activism, ma quando arrivano le regole, beh insomma, un attimino.
Ma c’è un passaggio particolarmente sorprendente di questa nota ed è quello dove si esprime apprensione «per l’eventuale incentivare il già preoccupante fenomeno del trasferimento della sede sociale in Paesi europei caratterizzati da sistemi di vigilanza e di enforcement meno afflittivi».
Ossia: Giorgetti attento, sennò qui tutti portano la sede ad Amsterdam! Come la Exor degli Agnelli e altre ancora.
«Peccato che l’Olanda abbia già una legislazione in materia che Abi, Ania & Co. definirebbero afflittiva», ci dice un dirigente finanziario che vuole restare anonimo, «là non ci si può trincerare dietro un “me lo ha detto il fornitore” e gli aspetti Esg stanno dentro al bilancio. Ma non mi pare che la cosa abbia impedito ad alcune grandi società di stabilirci la sede fiscale». Un tema che VITA approfondirà.
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