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Cooperazione & Relazioni internazionali

Uganda, bambini usati come armi

Un missionario racconta un dramma che il mondo continua ad ignorare

di Mirella Pennisi

Hanno dagli 8 ai 15 anni. Perché con loro è più facile. Sono fragili, malleabili, suggestionabili. Se fossero più grandi, forse sarebbero più forti. Potrebbero portare con più sicurezza il mitra. Ma si ribellerebbero con più facilità e ci vorrebbero più uomini per controllarli. Invece, così, bastano due o cinque ribelli per circondare un villaggi o una scuola, e sequestrare cento bambini. Picchiarli, renderli schiavi, costringerli a uccidere i loro coetanei, riempirgli testa e cuore di paura e di superstizione e poi mandarli a combattere. «L?anno scorso ho portato alla presidenza dell?Unicef un elenco di 920 nomi di ragazzi e ragazze scomparsi solo dalla mia parrocchia di Pajule vicino Kitgum». È padre Elia Pampaloni, in questi giorni a Roma, a raccontare quello che succede nel nord dell?Uganda, nelle province di etnia Acholi. La strategia dei ribelli «Il Lord?s Resistance Army (Lra, ndr) ormai da anni, e negli ultimi tre in modo sistematico, ha adottato questa crudele e insensata strategia per ?rifornirsi? di soldati e di donne da stuprare». Secondo Amnesty international, l?Unicef e Humans Rights Watch, sono più di 8 mila i bambini rapiti e 10 mila quelli uccisi. Per non contare i ?desaparecidos?, per usare un termine noto. «Le ragazze, ma anche i ragazzi sono venduti in cambio di armi. È un dato ormai accertato». Il tutto in contraddizione con la Convenzione di ginevra che proibisce l?utilizzo in guerra di bambini al di sotto dei 15 anni. E le armi, come le attrezzature, i campi di addestramento e l?appoggio dell?esercito regolare sono in Sudan. Sempre secondo Amnesty International e l?Unicef, che hanno condotto un?inchiesta e realizzato 170 interviste nella zona, i ragazzi rapiti vengono portati in Sudan per l?addestramento e più volte l?esercito governativo si è alleato ai ribelli nella ricerca di quelli che riuscivano a fuggire. «Le accuse turbano profondamente le coscienze. Il Sudan deve smentirle, denunciare i ribelli ugandesi e condannare le loro azioni efferate», ha dichiarato Carol Bellamy, direttore generale dell?Unicef. «In caso contrario chiediamo all?Onu di dichiarare l?incriminazione del Sudan e di conseguenza adottare le misure che ne conseguono». Un?islam aggressivo Elia Pampaloni è un uomo minuto, almeno in apparenza. È nato a Padova e vive ormai da 18 anni in Uganda, di cui 11 di guerriglia, che è comincia nell?86, con la vittoria dell?attuale presidente Museveni. Lui se li è fatti tutti. Per due volte è stato catturato dai guerriglieri. Per due volte rilasciato. «La regione dei Grandi Laghi (parliamo di quella striscia di terra che attraverso il Sudan, passa per l?Uganda, scende in Burundi e in Ruanda – ndr) è una terra molto ricca di minerali, diamanti in Congo, petrolio. Ma soprattutto c?è l?acqua. Tutto questo fa gola alle grandi potenze del mondo che hanno sicuramente interesse alla ?destabilizzazione?. Poi c?è l?attuale governo ugandese che ha sempre mostrato ostilità per gli Acholi, accusati di aver appoggiato prima Amin, poi gli Okello». E il ruolo del Sudan? «Il Sudan è oggi il portabandiera di un?islam aggressivo, integralista e in espansione. Da lì non arrivano soltanto armi e appoggio, ma anche idee. Quei guerriglieri erano inizialmente solo una setta cristiana, anche se bagnata di superstizione, ma sono oggi per lo più musulmani, non mangiano maiale, riposano il venerdì… E non dimentichiamo che in Uganda ci sono altri gruppi di guerriglia antigovernativa, uno al Nord e uno al Sud, entrambi musulmani integralisti». Ma chi sono i leader di questo esercito che rapisce, violenta e uccide i bambini? «Sono i militari che combattevano contro Museveni e che dopo la sconfitta giravano sbandati per le province del nord. Una certa Alice Lakwena li radunò e fondò nell?86 il Movimento dello Spirito». Cristiani, quindi. «C?era dentro un po? di tutto, Bibbia, superstizioni locali… Quando quella Lakwena fuggì in Kenya fu sostituita da Joseph Kony, l?uomo che con l?aiuto del fratello stregone, ha iniziato questa tragica escalation di abusi. Lui dice di essere cattolico, ma non figura nell?elenco dei battezzati». Stuprata e costretta a uccidere Una delle ragazze rapite, e poi riuscita a fuggire, abitava nella casa dietro la parrocchia di padre Elia. Al ritorno raccontò di aver imparato le tecniche della guerriglia, di aver ucciso una sua amica a bastonate, di aver rapito, di essere stata stuprata tante volte da non ricordare. Tutto in tre mesi. «È un marchio indelebile impresso in loro. Tornano senza più ricordare chi sono, a chi volevano bene. Riportarli alla vita è un lavoro enorme, con pochi risultati». Per non dimenticare quelli che tornano e non vengono riaccolti perché nel villaggio la gente ha paura delle rappresaglie. O.J., rapito il 15 agosto del ?96, fuggito per miracolo da un campo in Sudan, afferma che l?uccisione degli amici e dei coetanei è una sorta di ?iniziazione?, per dimostrare coraggio. Lui, per esempio, fu costretto a colpire con un machete un bambino legato in una capanna, colpevole di aver tentato, senza successo, di fuggire. Le scuole nel mirino «Nel mirino oggi sono le scuole. Nel distretto di Kitgum dal ?96 ad oggi ne sono state bruciate 59, cattoliche e non, uccisi 70 insegnanti, con migliaia di ragazzi rapiti e uccisi. A Gulu, un?altra provincia del nord, sono stati uccisi 11 insegnanti e rapite 250 ragazze». Sempre secondo Amnesty International il 30 per cento di questi minori sono bambine, selezionate soprattutto in base alla loro bellezza. Il 54 per cento ha un?età tra gli 11 e i 15 anni. Ci sarebbero poi più di 200 mila profughi fuggiti in Kenya e Sudan e almeno 2 milioni di malati di Aids. «Di notte i villaggi si svuotano», racconta padre Pampaloni. «Tutti vanno a rifugiarsi nelle nostre missioni, nelle parrocchie, negli ospedali. Per poi uscire ancora il giorno dopo. Un nostro missionario si trova da solo in una zona, la provincia di Anaka, dove di giorno girano i soldati dell?esercito e la notte i guerriglieri. Un altro missionario, responsabile di un seminario nel Karamoja, racconta che nel Kidepo Park (noto a tutti gli appassionati di safari – ndr) da qualche tempo hanno chiuso due vallate ai turisti. La popolazione locale dice che laggiù sono stati organizzati due campi di addestramento». E lo sanno anche le forze dell?ordine? «Certo, ma fino a qualche tempo fa la guerriglia operava e liberamente». Appello La religione non c’entra «Nessuno può dirsi un vero discepolo di Dio se non si impegna per la pace». Così si legge in una lettera congiunta che i leader religiosi ugandensi hanno indirizzato al governo, ai ribelli, al Sudan e alle potenze internazionali. Una lettera che smentisce l?idea che in Uganda sia in atto una guerra di religione. Firmatari Ochoia II della Church of Uganda, il vescovo cattolico monsignor Celestine Omongo, lo sheikh musulmano Khadu Suluman Waderof e il reverendo Wilfred Torach della Legio Mariae of African Church. Un appello a fermare la violenza, seguito da specifiche richieste. Ai ribelli: «Non usate il santo nome di Dio e i suoi comandi per commettere le vostre atrocità», «Rilasciate i bambini prigionieri». Al governo ugandese: «Non promuovete l?approvigionamento di armi, prima causa del male della regione». Al Sudan: «Sospendete il sostegno ai ribelli e facilitate il ritorno dei ragazzi acholi trattenuti nei campi in Sudan». Alle forze armate: «Proteggere la vita e le proprietà dei concittadini», assicurando la disciplina nelle truppe. La lettera prosegue con una supplica ai genitori e ai ragazzi ugandesi perché non si lascino irretire, non abbiano paura e tendano una mano a coloro che riescono a fuggire, agli sfollati, agli orfani, ai mutilati, alle ragazze bollate dallo stupro: «Non ascoltate quanti vogliono trarvi in inganno attraverso il sentiero sbagliato della violenza e della vendetta». In conclusione una richiesta alla comunità internazione perché sia rotto il silenzio che avvolge il conflitto, silenzio che fa comodo solo a chi vuole mantenerlo per trarne vantaggio.


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