Dopo ben nove anni di assenza, Kusturica torna al cinema proseguendo il suo pirotecnico e appassionato romanzo sulla guerra nella ex Jugoslavia. La vita è un miracolo è una sorta di Giulietta e Romeo trasportata nella Bosnia insanguinata degli anni 90. La storia di un ingegnere serbo che si innamora di una prigioniera musulmana si intreccia con il racconto della costruzione di una ferrovia; lo stile travolgente del regista ancora una volta incanta i sensi e trascina lo spettatore nel consueto vortice visivo, narrativo e musicale.
Con il suo talento tragicomico e esuberante, Kusturica sa inscenare il caos come pochi altri e reinventa la storia usando la macchina da presa come fosse la mente immersa in un paesaggio onirico. La scena è affollata da mille personaggi, il racconto procede popolato da una umanità bizzarra e da animali più umani degli umani, al ritmo di musiche trascinanti composte dallo stesso regista. Kusturica è ormai perfettamente padrone del proprio linguaggio, e in questo risiede forse il limite del film. Mentre in Underground la possente misura epica bilanciava l?elemento farsesco in un racconto di ambizioni shakespeariane e tolstoiane, in una perfetta sintesi tra privato e storia, qui nasce alla lunga (al film avrebbero giovato forse dei tagli) un sospetto di gioco stilistico fine a se stesso: tra un eccesso di toni parodistici e momenti debolmente sentimentali emerge una certa sensazione di deja vu. Meno follia e invenzione dunque, e più romanticismo e languidezza.
Imperfetto, ma comunque dall?impronta inconfondibile, La vita è un miracolo è un corollario pregevole e affascinante di quel capolavoro, ma non aggiunge molto all?opera del regista serbo. «La storia è un incubo da cui cerco di svegliarmi», scrisse Joyce, intendendo per storia quella con la s maiuscola ma anche quella con la minuscola. Kusturica riesce a farci vedere e sentire che questo incubo è anche un circo e possiede anche una musica; il cinema in questo caso è un abbandono totale al non senso dell?esistenza in una danza ebbra, in un bagno di vitalismo. Con il suo stile visionario e ipereccitato, col suo universo tutto urlato e sopra le righe, il cinquantenne maestro serbo rivela il parossistico prodigio di quella che Umberto Saba chiamava «la calda vita», e riesce a raccontarci una catastrofe trasformandola in una commedia frenetica e demenziale, una sarabanda convulsa, una festa infinita attraversata dal lutto.
Andrea Leone
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