Mondo
Un nomen omen meticcio
Matrimoni combinati, altre culture, seconde generazioni, accoglienza, integrazione... la bravura della Nair sta nel legare tutto, facendo un affresco di 25 anni di vita
di Redazione
Che il nome possa determinare in qualche modo il destino di una persona potrebbe suonare retorico. O banale. O astratto. Ci pensa Mira Nair, regista indiana da anni statunitense, a dare a questa affermazione una sua bella concretezza. E lo fa tornando agli anni 70. Un mondo a parte, verrebbe da dire, quando fra i continenti non c?erano muri di diffidenza e un giovanotto bengalese poteva trasferirsi a New York salvo poi tornare nel Paese d?origine per scegliersi una moglie grazie ai buoni uffici della rete parentale.
Il film sembrerebbe così aver preso una direzione: i matrimoni combinati, quel sentimento che non c?è e che, secondo una visione protoromantica, è subito o mai più. Ma si sa: l?amore coniugale è invenzione occidentale e recente, alla quale è andata a sovrapporsi la retorica (molto avanguardista) del colpo di fulmine. È facile perciò per i due sposini lasciarsi alle spalle tutti i dubbi, arrivando nella Grande mela e incontrando le prevedibili difficoltà. Lei d?inserimento, lui d?accoglienza. La pellicola così vira verso i temi dell?emigrazione, dell?incontro fra culture, modi di vita e tempi differenti. Finché non nascono i figli. Cioè la seconda generazione, che attraversa – ma in modo speculare – gli stessi ostacoli. Linguistici, comportamentali, relazionali. Sono cenni rapidi, quelli di Mira Nair, che sceglie con cura i fatti più significativi ed eloquenti. Con rigore narrativo e stilistico (e giusto un pizzico di lentezza).
Si giunge così alla maggiore età, tempo in cui il primogenito inizia a mettere in discussione (da qui il titolo) il suo nome. Che in effetti è strano: Gogol. Come lo scrittore. Un tipo difficile e sfigato, come nota il ragazzo, ma anche un genio, come ribatte il padre?
Una discussione che apre una nuova fase del racconto e fa emergere sempre meglio le mille sfumature che attraversano qualsiasi famiglia. Le delusioni, le incomprensioni, l?affetto anche non esplicitato, il rispetto. Non si tratta però di capitoli: la forza del film, e la sua maturità, sta proprio nell?accogliere le cesure esistenziali mostrandone piuttosto la continuità, mettendo in scena con apparente semplicità la trasformazione naturale dei legami in relazione alla consapevolezza che spetta a ogni età. In una parola, mostrando la vita che va avanti.
Sicché alla fine lo spettatore si rende conto di aver seguito per venticinque anni la storia di papà Ashoke e di mamma Ashima, dei loro figli sempre più americanizzati e comunque riconoscibili. Come diceva Agostino: «Il bambino che ero è morto, e io esisto».
Il destino nel nome
di Mira Nair
India-Usa 2006
con Kal Penn e Tabassum Hasm
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