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Un popolo che ha fattoombra al suo regime
La vigilia delle Olimpiadi vissuta dal vivo da un grande esperto di Cina
di Redazione

Nella rovente Shanghai di metà luglio l’impatto con la vigilia delle Olimpiadi è mediato innanzitutto dalla pervasività delle campagne pubblicitarie. Le recinzioni degli cantieri, onnipresenti in questa metropoli in costante trasformazione, sono tappezzati con i manifesti dell’Adidas, uno dei maggiori sponsor di questi Giochi, che ha scelto un sobrio bianco e nero azzurrato per una campagna di grande effetto. Gli atleti cinesi si stagliano giganteschi su uno sfondo impressionante di una densissima massa di persone che ne incalzano e ne sostengono il gesto atletico. Il messaggio è chiaro: dietro ognuna di queste persone ci sono le speranze, le energie, la passione di un popolo intero. La solennità delle immagini riecheggia altre campagne di comunicazione, quelle dei mass media cinesi, della Croce Rossa cinese e del governo stesso che chiamano a fare «della volontà popolare una fortezza».
Ma è altrettanto vero che l’umore dominante tra i cittadini di questo fragile gigante è davvero di dolore per le vittime, di partecipazione commossa agli sforzi di soccorso e di ricostruzione, ma nel contempo anche di sommessa fierezza per l’energia con cui il Paese ha fatto fronte alle emergenze.
Il Paese, non il “regime”: governo e popolazione si sono realmente compattati, il sostegno per l’attuale leadership – in particolare per “nonno Wen”, il primo ministro Wen Jiabao – è massiccio e attestato anche dai più autorevoli osservatori internazionali. Ciò non significa che non vi sia un ampio margine di critica – anche acuta – rispetto a un’ampia pletora di istanze controverse: dalle carenze del welfare cinese ai piani di rinnovamento urbano, alla corruzione in seno alle strutture del governo e del partito.
A Shanghai, dove tradizionalmente non si perde occasione di fare dell’ironia sulle ambizioni cosmopolite e la mania di grandezza di Pechino, le persone con cui mi fermo a fare due chiacchiere appaiono genuinamente dispiaciute del fatto che non rimarrò in Cina durante le Olimpiadi. E questo vale anche per i tassisti più disillusi e propensi a criticare apertamente il governo e il partito, cui attribuiscono la responsabilità dell’inflazione galoppante, delle infinite speculazioni edilizie e delle sperequazioni sociali sempre più vistose.
Perché ciò che queste Olimpiadi significano per i cinesi va decisamente al di là della nozione di “celebrazione di regime”: non sono viste come un’affermazione del Pcc o della sua attuale leadership, bensì come una testimonianza della capacità della Cina come nazione di uscire definitivamente dal cono d’ombra degli ultimi due secoli della propria storia, di tornare a calcare la ribalta internazionale con la consapevolezza di essere tornata ad essere un Paese sovrano. Semmai i rovesci subìti nel corso di quest’anno hanno temperato qualsiasi velleità trionfalistica.
Il 2008 è anche l’anno del trentennale della politica di riforma e apertura voluta da Deng Xiaoping, un miracolo economico, sociale e culturale senza precedenti, ma le cui contraddizioni sono oggi altrettanto palesi, riconosciute e discusse in Cina quanto le proprie conquiste. L’autorevole settimanale Nanfengchuang (Finestra sul vento del Sud) dedica nel numero di metà luglio un ampio numero speciale a questo tema, tentandone una ricostruzione che non trascura di evidenziare anche i costi e le incognite di uno sviluppo così travolgente. Glissando però con l’abituale, obbligatoria cautela sui tabù storici del periodo, a cominciare dai fatti di Tian’an men del 1989. Tuttavia, a colpire il lettore occidentale è soprattutto il relativo basso profilo della rievocazione di questi trent’anni “che scossero il mondo”.
Oggi casa sua è protetta dal governo municipale, che si è anche impegnato per la sua ristrutturazione: agli anziani inquilini la nuova Hangzhou non piace, è troppo grande, costosa e presuntuosa. «Un tempo», mi spiega la madre mentre affetta mazzi di cavolo cinese sul tagliere di legno della cucina all’aperto, «in questo quartiere ci si conosceva tutti e si viveva tranquilli. Oggi è pieno di palazzi di lusso e di negozi con roba che costa un mese intero di stipendio. Delle vecchie casette a due, tre piani non resta quasi nulla. Erano piccole e scomode, ma si sarebbero potute rimettere a posto, come succederà a questa. È un vero miracolo che si sia salvata!». Attorno a quello che un tempo era il pozzo di famiglia ci sono dieci rubinetti, come ci sono dieci lampadine diverse, con relativi interruttori, nello stretto disimpegno che porta nel cortile interno, perché ogni famiglia insiste sul diritto di pagare solo le proprie utenze. Quando la maggior parte dello spazio è in comune, l’enfasi è sull’attenta delimitazione di una sfera d’azione privata, per quanto piccola essa sia: una delle ragioni per le quali molti ex residenti di quest’area della città hanno aderito di buon grado ai progetti di rilocazione e ristrutturazione dei vecchi quartieri tradizionali.
Un altro vicino, tuttavia, è ancora più esplicito nel criticare quel che la città è diventata: «Altro che servire il popolo, qui ognuno si fa i propri interessi e contano solo i soldi e le conoscenze che hai, e quei delinquenti del Pcc passano sulla testa della gente senza ritegno! Chi pensi che abbia voluto radere al suolo questa città? È tutta colpa di qualche pezzo grosso in visita da Pechino, che magari è inciampato in qualche marciapiede sconnesso e ha deciso: buttare giù tutto, ampliare le strade, costruire grattacieli. E il risultato qual è? Che se non fosse per il nostro splendido Lago Occidentale, questa città sarebbe indistinguibile da mille altre lungo la costa cinese! L’unica speranza che abbiamo è che tra qualche anno Xi Jinping (l’attuale delfino di Hu Jintao) diventi presidente: lui era governatore del Zhejiang (la regione di cui Hangzhou è capoluogo) ed è una persona colta e intelligente, queste cose le capisce. È solo grazie a lui che qualche vecchia casa si è salvata, in città. Questa è la nostra storia, non la si può cancellare così, senza pensarci!».
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