Non profit

Una marcia in piùper la sfida governance

Bilancio sociale Perché non basta più una semplice documentazione delle attività

di Redazione

Si dirà che il decreto attuativo sul bilancio sociale non soddisfa le attese, che nonostante le quattro sezioni tematiche non si affronta efficacemente il discorso del coinvolgimento degli stakeholder, ignorando di fatto l’aspetto democratico del fare impresa sociale. Ma il testo firmato dal ministro Paolo Ferrero, proprio per le sue ambiguità, coglie nel segno fotografando le difficoltà con cui la cooperazione sta attualmente definendo le proprie strategie di governance. Così il tempismo con cui Legacoop conclude e pubblica la sua indagine sulla rendicontazione sociale denota un’urgenza di fondo: risolvere finalmente l’attuale stallo del dibattito e fare di quel decreto incompleto un’occasione di rilettura delle strategie organizzative della cooperazione.
D’altronde i risultati delle ricerca dimostrano che dopo anni di parole e confronti il tema è ancora fresco perché, se solo il 30% delle cooperative Legacoop censite adotta regolarmente lo strumento e solo la metà in un’ottica strategica e di governance, allora il problema non è solo definire parametri e modalità di compilazione, ma diffondere una vera e propria cultura organizzativa. «Finora nella maggior parte dei casi di studio, la rendicontazione sociale è fatta solo ex post, nel senso di documentare e comunicare le proprie attività, senza guardare agli enormi vantaggi strategici in termini di valutazione e programmazione delle attività che questo strumento offre», spiega Andrea Bernardoni, coordinatore del progetto Responsabilità e rendicontazione sociale per Legacoopsociali.
Il vero problema, dunque, sembra essere la mancanza di una visione prospettica del fare impresa, capace di rileggere lo stesso ruolo della cooperazione all’interno del mercato. Per ora «nella maggior parte dei casi si rimane incastrati nella trappola della certificazione di qualità, ancora legata ad una concezione dell’impresa sociale come mera produttrice di beni e servizi», spiega Valerio Luterotti, direttore di Federsolidarietà. «Il risultato è che alla singola cooperativa non conviene avviare processi tanto complessi di revisione organizzativa, perché tanto sa che questo non paga; e chi vuole svincolarsi da tale contorto meccanismo lo fa a sue spese, spesso limitandosi a diffondere semplicemente la propria identità».

Opportunità mancate
Eppure numerose teorie vedono nella rendicontazione e nella responsabilità sociale vere e proprie opportunità strategiche di sviluppo competitivo, proprio nell’ottica del coinvolgimento di operatori, utenti e altri soggetti imprenditoriali nella definizione della stessa cultura di impresa. Ma «per raggiungere tali obiettivi è necessario saper formalizzare i flussi informativi che sono alla base dei meccanismi di valutazione e di progettazione delle politiche di impresa», spiega Giacomo Libardi, consigliere Cgm. «Ovviamente», continua, «più la cooperativa è radicata nel territorio più si riesce a coinvolgere i diversi soggetti nella programmazione delle attività. Ma se si esce dai confini regionali, allora il problema è quello di creare dei modelli stratificati di monitoraggio e valutazione, che al momento sono troppo dispendiosi».

Presa di coscienza
Ecco perché, secondo Bernardoni, è necessario adattare le forma di rendicontazione alle esigenze delle diverse realtà cooperative. «La partecipazione dei rappresentati degli utenti nei consigli di amministrazione delle cooperative è praticata solo nelle realtà piccole o medio piccole», spiega. «Mentre nelle realtà più grandi la partecipazione degli utenti e dei loro rappresentanti è limitata alla gestione dei servizi. In questa prospettiva per promuovere e realizzare un’efficace coinvolgimento è necessario sostenere l’autonomia dei servizi ed introdurre strumenti di pianificazione, gestione, valutazione e rendicontazione delle performance a livello di singolo servizio».Ma una tale presa di coscienza non può essere l’effetto di norme e regolamenti imposti dall’alto. «Devono essere le associazioni di categoria a fissare linee guida flessibili capaci di indirizzare le singole cooperative nell’impostazione di innovativi processi di governance», conclude Libardi. «Altrimenti c’è il rischio che siano le associazioni di commercialisti e contabili a definire uno schema valido per tutti». Ma non basta, «si deve promuovere un modello che espliciti ciò che già si fa informalmente sul territorio», conclude Luterotti. «Penso alle assemblee, al continuo dialogo con l’utenza e a tutte quelle pratiche di continua valutazione delle politiche. Insomma, è necessario diffondere l’idea che la cooperazione da tempo è passata da una semplice organizzazione che produce ad un soggetto che apprende e che sa modificare la sua organizzazione in base alle esigenze del territorio».

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