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Famiglia & Minori

Una “safety zone” per il minore adottato

Continua il dibattito in vista della sentenza della Corte costituzionale sull'adozione aperta. «La scelta di un’adozione che per legge sia aperta potrebbe generare tanti mostri quanti quelli che vorrebbe allontanare», scrive una coppia di genitori adottivi. «L’interesse del minore si tutela in una logica et et». Un'ipotesi? Un periodo iniziale, per legge, di interruzione dei legami e solo dopo, caso per caso, i servizi (non il tribunale) valutino l'adozione aperta. Ma sempre su richiesta del minore, non della famiglia

di Angelo Moretti e Cettina Cutispoto

Come genitori adottivi non possiamo che appassionarci al dibattito animato da VITA sulla sentenza della Corte costituzionale in uscita, relativa alla legittimità o meno della normativa italiana sulle adozioni. Il tema posto al vaglio dei giudici è assai scottante e complesso. È giusto che la famiglia di origine debba per legge recidere ogni contatto con il figlio/nipote biologico che è stato adottato da un’altra famiglia (come oggi avviene in Italia ai sensi della legge 184/1983)? La regola aurea nel diritto minorile è “l’interesse superiore del minore” e questa regola ci farebbe nettamente propendere alla logica del “caso per caso”: appare illegittima una norma che pone una regola ferrea, astratta e generale, sulla sorte della relazione primordiale del minore, quella del sangue, e che non consideri caso per caso l’analisi di quale sia l’interesse preminente concreto per il bambino/ragazzo.

Attenzione, chi conosce il mondo delle adozioni sa bene che nei fatti questa previsione normativa non è assolutamente così rigida. Accade non poche volte che una famiglia adottiva decida di non impedire al figlio adottato di avere contatti con la famiglia biologica. Ma il tema che si pone – e su cui nei prossimi giorni saremo illuminati dalla nostra massima Corte – è se sia giusto che vi sia una rescissione de iure dei contatti con il legame biologico.

La nostra piccola storia di famiglia adottiva ci porta a questa considerazione: l’interesse del minore si tutela in una logica et et. Sia rescissione che aiuto vero nella ricomposizione della ferita. La rescissione de iure aiuta certamente il minore a sentirsi protetto senza ambivalenze da un’entità giuridica che nel prendersi cura di lui trascende il potere di ogni famiglia, un’autorità che anche un minore percepisce come tale, lo Stato sociale. Quando lo Stato interviene dichiarando la cessata potestà di una coppia genitoriale, e non interviene per affidare ad altri legami biologici familiari la cura del minore, deve avere una motivazione davvero grave e sufficiente, altrimenti si trasforma da Stato sociale a Stato abusante. Una volta che sarà intervenuto in scienza e coscienza tal senso, lo Stato sociale è chiamato ad agire perché ci sia un mondo di riferimento affettivo ed educativo “certo” e definito per il minore, un mondo in cui esistano degli adulti in carne ed ossa, con un nome e cognome, a cui il bambino o la bambina sentono di potersi affidare e di cui possono fidarsi in maniera univoca, una coppia “idonea” secondo le valutazioni operate dai diversi operatori competenti chiamati in causa per l’operazione di “abbinamento”. Se in questa fase non ci fosse alcuna rescissione giuridica del legame primordiale, il bimbo sarebbe un po’ come il figlio delle due serve chiamate a corte dal re Salomone: se nessuno è un riferimento unico, il bimbo è frammentato e diviso nei confini della sua vita concreta e psichica. E non è un caso che anche senza vivere la ferita dell’adozione, anche i figli di molti genitori separati vivono spesso questo disagio della doppia appartenenza e del doppio registro educativo, un equilibrismo con cui ancora facciamo poco i conti come comunità adulta.

Se in una prima fase non ci fosse alcuna rescissione giuridica del legame primordiale, il bimbo sarebbe un po’ come il figlio delle due serve chiamate a corte dal re Salomone: se nessuno è un riferimento unico, il bimbo è frammentato e diviso nei confini della sua vita concreta e psichica.

Questo significa che i bambini non dovrebbero più vedere né frequentare i loro legami biologici? Noi due pensiamo che ciò sia assolutamente impossibile: nel mondo intrapsichico dei bambini quei legami sopravviveranno sempre e vanno adottati insieme al minore. Non esiste un’adozione che sia scevra da questo conflitto interiore e quelle che lo mettono a tacere con un meccanismo di sostituzione sono spesso le peggiori adozioni, un coacervo di mondi interiori conflittuali.

Il bambino che sente un legame archetipico con il suo legame di sangue potrebbe sentirsi, se non bene accompagnato, nella posizione di agire un doppio tradimento: verso il suo sangue, se lo rinnega; verso i genitori adottivi a cui impara a voler bene se sente di provare ancora interesse ed affetti per il suo legame biologico. E come un arlecchino cercherà in tutti i modi di accontentare i suoi padroni interiori. Altre volte potrebbe vivere una sensazione permanente di “rischio” e “insicurezza”: ci sono bambini che si assumono le colpe dell’abbandono, convinti di aver fatto qualcosa di così tanto grave da aver “meritato” l’abbandono dei loro genitori biologici, per cui cercano in ogni modo di essere accondiscendenti per non essere nuovamente abbandonati, ed altri che hanno per tanto tempo paura che un passato violento verrà prima o poi a riprenderli, per toglierli dal nuovo stato di benessere in cui fortunosamente si trovano. A volte potrebbero sentirsi perfino in colpa con il loro passato, perché credono di aver avuto una fortuna – la nuova vita adottiva – che è stata negata ai loro genitori biologici, che restano ancora nei guai, se non nella vita certamente nel mondo immaginario dei minori adottati.

I genitori biologici generano, i genitori adottivi no: loro sono chiamati a rigenerare. E non potranno farlo senza prendere in carico tutta la storia che ha portato i loro figli a nascere.

La scelta di un’adozione che per legge sia aperta potrebbe generare tanti mostri quanti quelli che vorrebbe allontanare. Una possibile soluzione potrebbe essere quella di creare per legge una “safety zone”, un tempo giusto in cui l’adozione prenda avvio creando attorno al minore un luogo univoco e sicuro di nuovi riferimenti affettivi ed educativi; istruire per legge i genitori adottivi sulla consapevolezza che il bambino non nasce con loro e che va adottata la sua storia almeno fino a due generazioni precedenti (oggi spesso le famiglie adottive sono all’oscuro del passato e dei vissuti delle famiglie biologiche) e poi valutare caso per caso quando un’adozione debba essere aperta, su richiesta del minore e mai degli adulti.

Una valutazione che però non può toccare ai giudici o alla legge, ma a quei servizi consultoriali competenti che incarnano lo Stato sociale, il cui compito troppo spesso finisce con l’operazione di abbinamento e che invece dovrebbe durare per tutta la vita di un ragazzo o una ragazza e della sua famiglia adottiva (noi abbiamo avuto la fortuna di essere stati sempre accompagnati).

Non sarà una nuova legge o una nuova sentenza a mettere in pari la storia con il futuro, saranno gli adulti in carne ed ossa, accanto al minore, a poter ricomporre la ferita. I genitori biologici generano, i genitori adottivi no: loro sono chiamati a rigenerare. E non potranno farlo senza prendere in carico tutta la storia che ha portato i loro figli a nascere.

*Angelo Moretti è presidente del Consorzio Sale della Terra e portavoce del Movimento Europeo di Azione Nonviolenta-Mean. Firma l'articolo insieme alla moglie


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