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Russia

Yashin, Kara-Murza e gli altri 600 detenuti politici. Non dimentichiamoli

Non solo Alexei Navalny, nelle carceri del regime rimangono altri seicento prigionieri politici secondo Memorial, la più prestigiosa organizzazione per i diritti umani russa. Ilya Yashin con Vladimir Kara-Murza, condannato a venticinque anni, sono forse i nomi più noti. Non dobbiamo dimenticarli

di Paolo Bergamaschi

Ilya Yashin in un aula di tribunale

«Sarò isolato dalla società e tenuto in prigione perché vogliono che io stia zitto. Perché il nostro parlamento ha cessato di essere un luogo di discussione e ora tutta la Russia deve concordare silenziosamente con qualsiasi azione delle autorità. Ma prometto: finché sarò vivo non lo sopporterò. La mia missione è dire la verità. L’ho pronunciata nelle piazze, negli studi televisivi, nelle tribune parlamentari. Non rinuncerò alla verità nemmeno dietro le sbarre. Dopotutto, citando un classico, “la menzogna è la religione degli schiavi, e solo la verità è il dio di un uomo libero”». Mi aveva molto colpito, quando l’avevo letto,  il discorso di Ilya Yashin pronunciato nel dicembre del 2022 in tribunale davanti ai giudici di Mosca che poi l’avrebbero condannato a otto anni e mezzo di galera per avere diffuso “informazioni false sull’esercito” in relazione, in particolare, al massacro di Bucha, in Ucraina, perpetrato dai soldati russi.

Dopo la morte di Alexei Navalny sono andato a ripescarlo nel mio archivio perché merita di essere riletto per la sua tragica attualità. La società civile russa ha perso il personaggio più illustre di riferimento. Nelle carceri di regime rimangono, però, altri seicento prigionieri politici secondo Memorial, la più prestigiosa organizzazione per i diritti umani russa. Ilya Yashin con Vladimir Kara-Murza, condannato a venticinque anni, sono forse i nomi più noti. Non dobbiamo dimenticarli.

Ho incrociato più volte Anna Polytkovskaya, Boris Nemtsov, Natalia Estemirova tra i banchi del Parlamento europeo, li ho ascoltati mentre raccontavano la drammatica solitudine di chi opera in un ambiente ferocemente ostile cercando in Europa una sponda dove trovare appoggio e rifugio. Di fronte alla loro terribile fine si rimane paralizzati dal dubbio che avremmo dovuto fare di più per sostenerli e proteggerli oltre alle frasi di circostanza e a qualche risoluzione parlamentare.

Gli amici delle organizzazioni non governative russe mi hanno spiegato come funziona il regime. Quando diventi di ingombro ti trovi la casa svaligiata con il tuo passaporto appoggiato sul comodino di fianco al letto. È il classico avvertimento dei servizi di sicurezza. Con spietato cinismo ti viene offerta una via di fuga; chi non accetta ne paga le conseguenze, cioè il carcere a vita o la morte.

“Ho un principio che seguo da molti anni: fai ciò che devi, qualunque cosa accada. Quando è iniziata la guerra non ho dubitato per un secondo su cosa avrei dovuto fare: rimanere in Russia, dire la verità ad alta voce e fermare lo spargimento di sangue con tutte le mie forze. Mi fa male fisicamente rendermi conto di quante persone sono morte in questa guerra, quanti destini sono stati storpiati e quante famiglie hanno perso la casa. Questo non può essere tollerato. E giuro che non mi pento: è meglio trascorrere dieci anni dietro le sbarre, da uomo onesto, che bruciare silenziosamente di vergogna per il sangue che versa il tuo governo…”. Jashin non si aspettava alcuna clemenza dal giudice che poi l’ha condannato con una sentenza scritta altrove.

Vladimir Putin non ha bisogno di ordinare l’eliminazione dei suoi avversari. Una volta che il regime ti addita pubblicamente come nemico del popolo ci pensano i suoi luogotenenti a completare le operazioni, siano essi Yevgeny Prigozhin, prima di essere a sua volta eliminato, o Ramzan Kadyrov o chi per loro. È un atroce meccanismo automatico.

“Non preoccupatevi per me. Prometto che sopporterò tutte le prove, non mi lamenterò e percorrerò questo percorso con dignità. E voi, per favore, promettetemi che rimarrete ottimisti e non dimenticherete mai di sorridere. Perché vinceranno loro proprio nel momento in cui noi perderemo la capacità di goderci la vita. Credetemi, la Russia sarà libera e felice”. Non so se Ilya Jashin credesse veramente a queste ultime parole del suo discorso mentre le pronunciava.

L’invasione russa dell’Ucraina intanto continua. Da una parte Kiev con un sostegno occidentale sempre più traballante; dall’altra Mosca spalleggiata dal regime bielorusso, 1600 prigionieri politici, da quello iraniano, migliaia dissidenti incarcerati o soppressi, e da quello nord-coreano, di fatto un immenso lager per milioni di persone. Da noi, tuttavia, spira forte il vento del sovranismo e del pacifismo ideologico che vorrebbe spingere l’Italia al disimpegno da ogni responsabilità non schierandosi. Come se quello che succede in Ucraina non ci riguardi o, come fa intendere Putin, è una faccenda interna a uno stesso unico popolo nella quale non ci si deve immischiare. Come se la parola pace non si declini con democrazia e diritti umani. Come se Alexei Navalny e Ilya Jashin non fossero finiti dietro alle sbarre anche per noi.                      


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