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Zamagni: «Il riarmo non porta mai la pace, ma stavolta Trump ha fatto male i conti»

Stefano Zamagni, professore emerito di Economia politica all’Università di Bologna, analizza i vari aspetti dell'accordo raggiunto tra i Paesi Nato sull'investimento del 5% del Pil per la difesa e la sicurezza in Europa. «La vera novità è la privatizzazione della guerra, ma ancora molti non lo hanno capito». E la posizione controcorrente della Spagna, alla lunga potrebbe agevolare altri Paesi in difficoltà, Italia compresa

di Luigi Alfonso

«La storia ci insegna che le armi non hanno mai contribuito a consolidare la pace, ecco perché sono contrario all’accordo siglato dai Paesi della Nato. Tuttavia, in questa vicenda scorgo un aspetto positivo: la possibilità per l’Europa di arrivare nel tempo a sganciarsi dagli Stati Uniti d’America». Stefano Zamagni, professore emerito di Economia politica all’Università di Bologna, sintetizza così il suo pensiero sull’impegno assunto ieri dai Paesi membri che si sono impegnati a investire il 5% del Prodotto interno lordo – Pil all’anno per la difesa e la sicurezza.

«La decisione presa ieri non sorprende perché era nell’aria già da tanto tempo», precisa il professor Zamagni. «Quello che è stato ottenuto è un dilazionamento, cioè il passaggio dai cinque anni ipotizzati prima ai 10 anni, per consentire alle economie dell’Europa di aggiustarsi con maggiore gradualità all’obiettivo desiderato di arrivare entro il 2035 al 5% del Pil. Ovviamente ci sono due chiavi di interpretazione di questo. La prima è che, così facendo, l’Europa accetta il target imposto da Trump, però al tempo stesso tende in qualche modo a slegarsi dalla sua sudditanza dagli Stati Uniti: il giorno in cui si arrivasse ad una difesa europea comune al livello consentito da una percentuale così alta – perché il 5% del Pil è molto alto – l’Europa potrebbe dire che è autonoma e non ha più bisogno dell’ombrello protettivo. Che è ciò che, per 80 anni, ha tenuto l’Europa succube degli Stati Uniti. Non dipendendo più dagli Usa, non ci sarebbe più bisogno di ospitare le basi Nato. Potremmo dire: “Grazie per il servizio, adesso tornatevene a casa”. Lo scopo è quello lì. Credo che Trump non abbia fatto i conti con l’oste: il giorno in cui si arrivasse a quel punto, i cervelli rientrerebbero in Europa. Perché quello che la gente non sa o non vuole capire è che gli americani non hanno il capitale umano sufficiente, i cervelli sono tutti europei o asiatici, alcuni dell’America Latina. Il giorno in cui dai laboratori, a cominciare da quelli nucleari, andassero via tutti i cervelli europei, gli Usa si ritroverebbero in braghe di tela. È questo che molte persone dovrebbero sapere».

Stefano Zamagni, professore emerito di Economia politica all’Università di Bologna

La cosiddetta fuga di cervelli continua a essere alimentata dall’incapacità dei governi che si susseguono nel creare i presupposti per tenerli in Italia…

Finora lo scambio era: voi venite qua, ci fornite la vostra intelligenza, noi però vi proteggiamo e quindi non avete bisogno di spendere troppi soldi. Infatti noi, in Italia, spendevamo neanche l’1% del Pil.

Qual è la seconda interpretazione che si può dare al passaggio di ieri?

L’idea che gli armamenti e i riarmi non favoriscono il raggiungimento della pace, anzi la allontanano. Io questo lo sottoscrivo, sono a favore della pace e questo è un giudizio di natura etica ma anche politica. Da che mondo è mondo, le armi non hanno mai garantito la pace. C’è una bellissima frase di un romanzo di Anton Čechov che risale al secolo scorso: “Se in un romanzo appare una pistola, prima o poi dovrà sparare”. Dimostrando di aver capito più di tanti intellettuali, lo scrittore ci dice: più costruisci le armi e più aumenti la probabilità del conflitto, perché le armi hanno una scadenza. Sono come lo yogurt, non possono durare. Una volta prodotte, vanno utilizzate in una forma o nell’altra. Non si è mai visto un Paese che costruisce le armi e poi le distrugge. Le usa. Ecco perché il riarmo non va nella direzione della pace, indipendentemente dal fatto del 5% o che si fosse continuato con la vecchia impostazione. La teoria della deterrenza, in base alla quale si giustifica il riarmo dal punto di vista politico, oggi non funziona più perché la deterrenza funziona soltanto nel caso in cui contendenti siano due, come è stato durante la Guerra Fredda: lì ha funzionato perché c’erano da una parte gli Stati Uniti e dall’altra l’Unione Sovietica. Non c’era nient’altro.

E quindi i due blocchi si annullavano a vicenda…

Esatto. Ma siccome oggi i contendenti non sono più due, perché nel mondo multipolare nel quale viviamo gli attori sono tanti, il meccanismo della deterrenza non produce più l’effetto desiderato. Se la prima era una ragione di natura etica e politica, questa è una ragione di natura strategica. Chi pensa che riarmando l’Europa possa aumentare la difesa, si illude. Era vero sino agli anni Novanta, come peraltro ci insegna la teoria dei giochi: uno vince e l’altro perde. Accade nello sport ma anche negli scacchi. Ma quando i concorrenti in campo sono numerosi, non puoi mai sapere chi vince, perché può accadere uno stia momentaneamente perdendo ma poi si allei con altri soggetti che all’inizio non avevano preso parte al conflitto: in questo modo, è possibile rovesciare le sorti. E la stessa cosa farà l’altro. È lo stesso meccanismo del dilemma del prigioniero.

In definitiva, gli unici che escono sempre vincitori sono i produttori di armi, cioè le lobby che spesso determinano gli uomini che vanno al potere…

È da tanto tempo che scrivo queste cose. Il fatto è che la gente non vuole leggere. Oggi la novità è la privatizzazione della guerra, ed è una novità assoluta. Fino a 20-30 anni fa non era mai stato così, perché chi produceva le armi erano gli Stati oppure le imprese controllate dai governi. Oggi, invece, la produzione bellica è tutta in mano ai privati. Infatti, le imprese che producono armamenti sono quotate in borsa. Come si fa a non capire questo? Se sono quotate in borsa, io compro le azioni perché hanno reddittività. O, meglio, danno la profittabilità più alta, quindi il meccanismo speculativo tende a far sì che coloro i quali hanno interessi di tipo finanziario in questo business spingano sui governi per indurli ad accettare quell’obiettivo. Prima, in qualche modo, nei confronti dei governi si poteva esercitare qualche pressione. Come fai a far ragionare gli azionisti che sono centinaia di migliaia sparsi per il mondo? È impossibile dal punto di vista fattuale.

In un mondo ormai multipolare, i Brics svolgono un ruolo fondamentale?

Prima i Paesi aderenti erano cinque, adesso sono dodici. Il Global South è una alleanza che, nell’insieme, rappresenta il 55% della popolazione mondiale e ha un Pil superiore a quello europeo e anche a quello americano. Tra i dodici ci sono potenze come la Cina, la Russia, ma anche l’India, il Brasile, il Sudafrica. In tutta questa vicenda, osservate il comportamento della Cina: si stanno rivelando i più furbi in assoluto, stanno fuori dai giochi e osservano. In questo modo riusciranno a esercitare un’egemonia. È come dire: “Scannatevi pure tra di voi, poi vedremo…”. La Cina non ha mai fatto la guerra. Mai.

Resta aperto, però, il capitolo Taiwan…

Vero. Ma la Cina non farà mai la guerra armata. Piuttosto privilegerà la guerra economica. Quella sì. Parliamo di un Paese che non ha mai applicato il colonialismo, si è solo difeso dagli attacchi degli altri. Bisognerà pur capire questa cosa. Loro prendono gli avversari per fame, usando la forza della determinazione.

La maggioranza degli italiani non è favorevole all’accordo Nato…

Non ho dubbi. Chi spinge in quella direzione è l’elite. Pensiamo agli intellettuali. Quanti nostri laureati bravissimi vanno in America? Non ci vanno perché la amano, ma soltanto perché evidentemente le condizioni sono quelle che sono. Se noi europei offrissimo condizioni anche leggermente inferiori, queste persone resterebbero in Europa. Non ho mai trovato qualcuno che dica: vado là perché mi piace. Dicono che non hanno alternative. Sradicare una persona dalla sua terra, dalla sua comunità, non è una cosa semplice: è inutile che qualcuno faccia finta di pensare che le persone siano soltanto utilitarismo puro.

Come valuta l’atteggiamento passivo della premier Meloni, che non ha avuto il coraggio del primo ministro spagnolo che non rispetterà il 5%?

Di fronte a una posizione di irrilevanza, non mi sento di dirmi né a favore, né contro. Piuttosto, devo dire che lei è molto astuta perché, avendo capito che l’Italia non aveva la forza (come potevano averla sino a qualche tempo fa la Francia e la Germania), Meloni si è accodata per ottenere un minimo di riconoscibilità. Però lei è la prima a sapere che non riusciamo a fare il gioco. L’unico elemento di forza che abbiamo noi italiani sono i cervelli. Ecco perché continuo a dire che dovrebbero fare di tutto per farli rientrare. I nostri cervelli sono migliori di quelli degli altri Paesi. Con le nuove tecnologie il capitale umano è il fattore decisivo, bisognerebbe cambiare strategia. La Meloni naviga a vista, in una maniera furba che magari non gioverà né a lei, né al Paese, però almeno mantiene un certo equilibrio. D’altronde, non ha niente da mettere sul campo.

Non abbiamo più la forza contrattuale?

Esattamente. Invece la sorpresa positiva è la Spagna: hanno detto chiaramente che loro non investiranno più del 2%. Sanchez, che è un socialista, ha ribadito: io non posso affamare la mia gente per arrivare a spendere il 5% del Pil. Prima penso a mangiare, in senso metaforico, e poi penseremo al resto.

Se ce l’ha fatta la Spagna, poteva farcela anche l’Italia?

Sì. Ma, ribadisco, Meloni deve tenere un certo equilibrio: un po’ qua e un po’ là. È l’atteggiamento di chi non ha una sua statura. E le persone che non hanno una statura, stanno sempre a mezz’aria. Questo è un classico, dai tempi di Aristotele. La mossa della Spagna, tuttavia, avrà un seguito nei prossimi anni quando, per una ragione o per un’altra, una delle economie europee si troverà in difficoltà. Allora salteranno fuori i problemi e, a furor di popolo, si dirà: adesso riduciamo. Se ciò è stato consentito alla Spagna, non si vede perché non debba essere consentito ad altri. D’altra parte, non possono certo espellere un Paese per questo motivo, anche perché non è contemplato dal Trattato. Perciò, bisogna vigilare e insistere di più sulla dimensione culturale. Occorre spiegare alla gente com’è la situazione, perché in troppi sono del tutto ignari: non sanno che la guerra è stata privatizzata e che il mondo è cambiato. Bisogna fare controcultura. Se invece ci limitiamo a stracciarci le vesti e a protestare, facciamo il gioco dell’avversario. È sempre stato così. Ma è la cultura che alla fine vince».

Credit: la foto d’apertura è di Associated Presse/LaPresse

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