Andrea Zanzotto è uno dei grandi poeti italiani. Oggi ha 88 anni. E ha raccontato la sua avventura umana e culturale in un libro intervista con Marzio Breda (In questo progresso scorsoio, Garzanti, 13 euro). In questa pagina Zanzotto rivanga i primordi del suo essere poeta.
La mia prima parola è stata, presumibilmente, quella di tutti: un vagito. Dopo il quale, da una sillaba all’altra e da un gesto all’altro, capita che ogni bambino collaudi la realtà sulla sua stessa voce e notifichi la propria esistenza secondo l’universale idioma condiviso da tutti i piccoli d’uomo, a prescindere da differenziazioni di lingua o di appartenenza etnica e geografica? A proposito di questo, Lacan sosteneva addirittura come un vagito si ponga in sintonia con tutti i vagiti del mondo e faccia anzi “sistema” con essi: valutato in questa prospettiva, un vagito risulta costituire un segno di richiamo in quanto il suo effettivo o mancato verificarsi decide della presenza o dell’assenza di una madre. È un appello articolato nel medesimo modo da tutti i cuccioli umani del pianeta, ciò che almeno in questo ci affratella, e che esprime il “piacere” che l’essere ha di essere, nel momento in cui si apre alla vita: una sorta di “piacere del principio” che sta al di qua del “principio di piacere” di freudiana memoria.
Ed è esattamente da qui – dall’albuminosa atmosfera fatta di voci, di nenie cantilenanti di madri e balie, di ipnotiche alternanze di armonie, ritmi e suoni del mio “nido” nella Cal Santa a Pieve di Soligo – che ha preso forma in me la più remota, e certo rarefatta e inconsapevole, idea di poesia di cui conservi ricordo?
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