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Trump fra istinti, psicodemocrazia e fascino dell’uomo qualunque

La vittoria di Trump è stata sostenuta anche da fattori emotivi, da percezioni psicologiche oltre che da stati di fatto. Fra l'elettorato di Trump e di Clinton si è creata una frattura tra chi si crede tra i vincitori della globalizzazione e chi si sente sconfitto, fra chi sostiene l'establishment politico, economico e finanziario e chi lo sfida. Sanders, a suo modo, lo aveva intuito. Clinton invece era una candidata a cui otto anni fa era già stato preferito un Barack Obama allora in versione “socialista”. Una intervista con Gabriele Giacomini

di Marco Dotti

Il panico e la rabbia del giorno dopo spiegano poco, ma qualcosa spiegano. Anche nel caso Trump, l'establishment è scosso ed è un indizio di qualcosa di più profondo. Gabriele Giacomini, ricercatore, assessore all'innovazione e allo sviluppo della Città di Udine, autore di un recente volume sulle contaminazioni e le derive irrazionali del discorso pubblico, chiama questo fenomeno "psicodemocrazia". Un tema e una proposta da seguire con attenzione, proprio in rapporto alle ultime elezioni americane e a quel lungo "day after" che ancora non è finito.

Psicodemocrazia: un termine, un concetto che da qualche giorno sentiamo più vicino. Ci aiuta a comprenderlo meglio?
La psicodemocrazia parla di come Trump può vincere le elezioni, contro ogni pronostico. Riguarda il passaggio della nostra componente irrazionale dall'inconscio individuale alla politica. Spiega come le scienze cognitive possono rendere conto delle dinamiche democratiche. Spesso critichiamo ferocemente i politici, diciamo che non sono capaci, che non sono efficaci, che non sono adeguati. A volta abbiamo ragione. Ma più spesso stiamo criticando noi stessi: i politici inadeguati non nascono dal nulla, hanno avuto consenso. La tesi del mio libro Psicodemocrazia. Quanto l'irrazionalità condiziona il discorso pubblico (Mimesis 2016) è che in crisi non è semplicemente la politica, ma la politica democratica che dipende da elettori spesso emotivi, impulsivi, che poco sanno e che poco si informano di programmi e differenze, che votano “con la pancia” ma che sono decisivi nel dare potere decisionale. E' una crisi inesauribile, perenne, costitutiva della democrazia, che non è una novità e che torna continuamente, e di cui dobbiamo tenere conto.

Inutile nasconderci: l'elezione di Donald Trump, al culmine di una campagna "psicopolitica" quanto mai intensa e aggressiva, ha cambiato tutto. Come leggere questo fenomeno?
Già Obama aveva cambiato tutto, e prima di lui Reagan, e prima ancora Kennedy. Nel senso che tutti hanno vinto elezioni “psicopolitiche”. Certo, in diverse forme e con differenti intensità. Ma tutti i politici vincenti sono tali perché riescono a sincronizzarsi anche con le emozioni, le pulsioni, le sensazioni degli elettori. Ci deve essere tutto: un buon programma e competenze per diventare autorevoli e per durare, ma anche un grande talento nell'interpretare gli umori del tempo. Anche con il proprio aspetto fisico, se necessario. Nel 1960 Kennedy vinse il primo dibattito televisivo contro Nixon perché guardava con lo sguardo fisso la telecamera, era abbronzato e sicuro di se, Nixon invece usciva da un'influenza, si era rifiutato di sottoporsi al trucco e lanciava veloci occhiate alla telecamera, dando l'impressione di essere nervoso e timoroso. Con il risultato che gli ascoltatori del dibattito alla radio assegnarono un sostanziale pareggio ai due contendenti, mentre i telespettatori assegnarono una netta vittoria a Kennedy. Ma non dimentichiamoci che Reagan era innanzitutto un attore, una star di Hollywood, attorniato dai migliori consulenti d'immagine. E poi pensiamo ad Obama, abilissimo nel proporre agli elettori non solo programmi ma anche ideali che, in lui incarnati, facevano letteralmente volare l'immaginazione. Non credo di essere irrispettoso dicendo che già il semplice fatto di essere stato il primo presidente nero della storia sia stato importante per i suoi sostenitori.

Dopo otto anni di amministrazione Obama i democratici hanno presentato Hillary Clinton, la prima donna candidata in un “major party”. Ma non è stato sufficiente.
La vittoria di Trump è stata ancora una volta sostenuta da fattori emotivi, da percezioni psicologiche oltre che da stati di fatto. Certo, ci sono stati dei cambiamenti sostanziali nell'elettorato rispetto alle scorse elezioni. Ad esempio, se confrontiamo i dati degli exit poll di queste elezioni con quelli delle precedenti, vediamo che tra gli elettori che guadagnano meno di 30 mila dollari all’anno Obama aveva battuto il candidato repubblicano Mitt Romney 63 a 35, mentre Clinton ha battuto Trump 53 a 41: un recupero di ben 16 punti da parte del candidato repubblicano su quello democratico fra gli elettori a basso reddito. Ma le analisi che si basano esclusivamente su caratteristiche oggettive e misurabili – ricchi e poveri, uomini e donne, imprenditori e lavoratori – colgono solo una parte della realtà. Un'ulteriore linea di demarcazione fra elettorato di Trump e di Clinton si nutre di una percezione psicologica, e si concretizza fra chi ha l'impressione di essere fra i vincitori della globalizzazione e chi invece si sente spaventato, minacciato, in alcuni casi sconfitto, fra chi sostiene l'establishment politico, economico e finanziario e chi lo sfida. Sanders, a suo modo, lo aveva intuito. Clinton invece era una candidata a cui otto anni fa era già stato preferito un Barack Obama allora in versione “socialista”, moglie del presidente democratico più liberista della storia americana, candidata sostenuta dai cosiddetti “poteri forti” dell’economia e dei protagonisti delle globalizzazione, intercettata mentre flirtava con i lobbisti: anche per la sua storia personale, non è stata in grado di intercettare l'insoddisfazione di coloro che si sentono minacciati dalla globalizzazione, dal mercato libero, dal terziario avanzato e dalla tecnologia, sfide decisive che mostrano anche un lato oscuro e che sono in attesa di risposte adeguate da parte della politica.

Trump in qualche modo sembra essere riuscito a raccogliere il malcontento crescente. Eppure ha condotto una campagna elettorale aggressiva, con molte affermazioni sopra le righe.
Credo che il suo stile aggressivo sia stato una componente della vittoria. È un miliardario che sembra “uno del popolo”. Sebbene sia molto ricco e abbia uno standard di vita molto superiore alla media degli americani, l'immagine di Trump e il suo modo di fare diretto e senza filtri, invece di danneggiarlo, hanno contribuito a farlo sembrare più “vicino” alla gente comune. “Volgare” nel senso etimologico del termine. Uno strano paradosso, ma solo dal punto di vista razionale. Da decenni sappiamo, infatti, che sembrare un“everyday man”, ovvero un “uomo qualunque”, può essere vincente. Anche se in realtà sei tutto tranne che ordinario. Gli elettori tendono a specchiarsi istintivamente con i leader, a cercare in loro gli indizi di una possibile vicinanza, di qualunque tipo, anche superficiale.

Vicino ma anche lontano…
Se il candidato sembra essere vicino alle persone comuni, se non è “perfetto”, se ha difetti che in qualche modo lo mettono in rapporto con il suoi elettori di riferimento, allora inconsciamente si tende a pensare che farà politiche più ricettive. Ma ci si può spingere oltre nel ragionamento. Più precisamente Trump sembra un “uomo qualunque” al massimo dello splendore, all'ennesima potenza, che ha raggiunto tutto ciò che probabilmente molti maschi bianchi desiderano: ovvero Trump sembra colui che un “uomo qualunque” sogna di diventare. È sufficientemente sanguigno per sentirlo vicino e per perdonarlo per qualche battutaccia di troppo, e allo stesso tempo è sufficientemente ricco, potente e attorniato da belle donne per ammirarlo. Un ultimo spunto proprio sulle donne: è notevole che alcune affermazioni di Trump spiccatamente maschiliste e le accuse di molestie che ha ricevuto non gli abbiano compromesso la campagna. Nel caso degli elettori uomini è possibile che alcune frasi non solo siano state tollerate, ma li abbiano confortati nelle loro stesse convinzioni, liberandoli in un certo senso dei sensi di colpa. Più difficile interpretare la sorpresa del voto femminile, soprattutto delle donne bianche non laureate, che si è rivelato pro-Trump nel 62 per cento dei casi: l'impressione è che, invece di fare scattate la ribellione, le parole di Trump siano finite per rinforzare l'accettazione. Torna il tema iniziale: critichiamo i politici ma esiste sempre un'alleanza fra potere e cittadini, una complicità, e in democrazia più che in qualsiasi altro regime politico.

Trump sembra un “uomo qualunque” al massimo dello splendore, all'ennesima potenza, che ha raggiunto tutto ciò che probabilmente molti maschi bianchi desiderano: ovvero Trump sembra colui che un “uomo qualunque” sogna di diventare. È sufficientemente sanguigno per sentirlo vicino e per perdonarlo per qualche battutaccia di troppo, e allo stesso tempo è sufficientemente ricco, potente e attorniato da belle donne per ammirarlo.

Non le pare che alla categoria "dialogo" sia continuamente svuotata di senso, spesso ridotta a meri appelli che non fermano la demonizzazione e la neutralizzazione dell'altro? Come possiamo “affrontare il mostro”?
Trump presidente è un mistero che si svelerà con il tempo. Di certo una cosa è la campagna elettorale e un'altra è governare. Trump candidato era un protezionista, ora però dovrà entrare in relazione con diversi interessi e con la complessità della società. Innanzitutto dovrà fare i conti con il suo partito, che ha la maggioranza al Congresso e che ha una lunga tradizione liberista. Questo è solo un esempio di come si attiverà il dialogo democratico, inteso come confronto fra argomenti ed interessi diversi. Il dialogo democratico non si risolve nella campagna elettorale ma prosegue anche nelle istituzioni. Non stiamo parlando di un dialogo di forma, politicamente corretto, oppure del dialogo astratto che potrebbe esserci fra accademici ad un convegno di fisica quantistica, ma di un confronto necessario in cui attraverso la discussione i governanti e i governati si muovono in termini ragionevoli, con la ragione, il logos, facendo i conti con la realtà. Attività che in campagna elettorale si può rimandare, ma che poi presenta il conto, richiedendo politiche che funzionino, ben costruite, che vadano oltre la propaganda. La democrazia è certamente abitata da istinti, passioni, sentimenti, ma è strutturata in maniera tale da promuovere il confronto ragionato. E da rendere possibile – come diceva Popper – che i governanti possano essere cambiati in maniera pacifica. Fino a quando ciò accadrà la democrazia potrà anche “sbagliare”, ma allo stesso tempo potrà sempre cercare strade nuove e diverse.

Il libro


Gabriele Giacomini, Psicodemocrazia. Quando l'irrazionalità condiziona il discorso pubblico, Mimesis, Milano 2016, euro 18.
Viviamo in una democrazia dove la passione e il sentimento, l’istinto e la paura vengono evocati, sollecitati, utilizzati per la costruzione del consenso. dalle predisposizioni latenti all’agendasetting, dall’identificazione di partito al condizionamento dei media e delle televisioni, dalla centralità dell’immagine del leader al ricorrente utilizzo di euristiche e bias, sono tanti i fenomeni emotivi ed irrazionali che hanno un ruolo rilevante nell’influenzare le decisioni in democrazia. Si aprono quindi dubbi ed interrogativi: la democrazia è una buona forma di governo? La tecnocrazia può essere una valida alternativa? Il foro pubblico può essere il luogo dell’elaborazione razionale delle idee e del confronto argomentato? E ancora, com’è possibile fare in modo che le spinte irrazionali ed impulsive degli individui producano decisioni politiche il più possibile desiderabili? Le scienze cognitive e sperimentali entrano nella mente dei cittadini e dei politici, ne svelano i meccanismi più profondi e sorprendenti, ci aiutano a pensare la democrazia in maniera più consapevole.


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