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Cooperazione & Relazioni internazionali

Migranti: tra porti d’approdo, bandiere delle navi e ipocrisia europea

Cosa c'è dietro le nuove proposte shock di non fare attraccare chi non batte bandiera Ue e di portare le persone a Barcellona o Marsiglia. Parlano le voci in prima linea: "basta ipocrisie, si salvino vite o si getti la maschera", denuncia il candidato al Nobel Mussie Zerai, mentre Regina Catrambone del Moas rilancia "l'unica azione per svuotare i barconi: i corridoi umanitari"

di Daniele Biella

Dodicimila arrivi nelle ultime 48 ore. Cinquemila tra oggi e domani. Numeri di sbarchi lungo le coste del mar Mediterraneo, in questo caso in Italia. Dietro ogni numero una persona, che ha lasciato la propria casa ed è stata salvata – quando è andata bene, ovvero non per le almeno 7mila vittime degli ultimi 18 mesi – dalle navi della Guardia costiera, dell’agenzia europea Frontex, delle ong o da mercantili di passaggio. Tutte in collaborazione tra loro, sia chiaro, coordinate dalla Capitaneria centrale di Roma che dice loro dove sbarcare. Riducendo di fatto il computo delle vittime. Ma da qualche ora, in televisione e tra le pagine dei giornali, si fanno strada due nuove idee, o meglio dire una proposta e una minaccia, che stanno agitando le acque.

“Facciamo approdare le navi anche in altri porti del continente europeo, come Barcellona e Marsiglia”, la proposta. “Impediamo lo sbarco di navi umanitarie con bandiera non italiana o europea”, la minaccia. Colpisce che queste due intenzioni, soprattutto la seconda, siano trapelate da ambienti governativi europei senza una dichiarazione ufficiale (come riporta qui Il Post). L’intento? Inchiodare gli Stati membri dell’Unione europea alle proprie negligenze e resistenze, condensate nel fatto che stia lasciando Italia e Grecia a subire un flusso migratorio sempre più insostenibile e sproporzionato rispetto agli altri Paesi europei. Negligenze e resistenze di cui anche Vita.it ha trovato riscontro diretto di recente a Bruxelles (qui l’incontro con Avramopoulos e Frontex). Quindi, come la mettiamo? Abbiamo provato a chiedere conto delle due nuove idee a chi è in prima linea da anni sull’argomento: il candidato al Nobel 2015 padre Mussie Zerai, rifugiato eritreo da 30 anni in Italia, fondatore dell'Agenzia Habeshia, che riceve chiamate di Sos dal mare e dalle carceri libiche, e Regina Catrambone, cofondatrice, assieme al marito Christopher, dell’ong Moas che, nel 2014, è stata la prima organizzazione non governativa ad avere le autorizzazioni necessarie per mettersi in mare a salvare vite assieme alle autorità competenti.

La questione porti
Vogliamo davvero portare le persone in porti più lontani, per esempio in Francia o in Spagna? Facciamolo, ma aumentano il numero attuale di navi, perché è impensabile fare compiere la tratta a chi c’è oggi in mare, ci metterebbero giorni, e rimarrebbe più sguarnita di quello che è già ora la zona, aumentando a dismisura il rischio di nuovi naufragi”. È secca la risposta di don Zerai. “Chi degli Stati membri aderisse a tale progetto dovrebbe mettere in acqua proprie navi, arrivando al limite delle acque territoriali di competenza dove effettuare il trasbordo di persone dall’imbarcazione che le ha salvate per poi portarle nel proprio porto”. Anche cambiando le attuali regole di ingaggio (“secondo le regole imposte dalla stessa Ue, tutti hanno l’obbligo di portare le persone in un porto italiano indicato dal Comando centrale della Guardia costiera”, conferma la portavoce della stessa agenzia Frontex, titolare dell’ Operazione Triton) Ma siamo sicuri che Spagna o Francia – che da anni sta bloccando l’ingresso di persone alla frontiera via terra a Ventimiglia – accettino un’idea del genere? “Forse lo farebbero sotto la pressione dell’intera Unione europea”, sostiene il candidato al Nobel, “però bisogna dire che una soluzione più immediata e rapida c’è già ma non viene considerata dalla Ue”. Quale? “L’ampliamento dei corridoi umanitari: fare accedere legalmente le persone dalle zone precedenti all’imbarco con i trafficanti di uomini, distribuendole poi in Europa e di fatto svuotando le barche della morte e le casse dei malfattori”. Con aerei, così come sta avvenendo, con numeri non alti ma in modo concreto, grazie all’accordo tra Comunità di Sant’Egidio, Tavola valdese, Cei, comunità Papa Giovanni XXIII e ministeri italiani di Interni ed Esteri: mille persone siriane accolte con viaggi sicuri dai campi profughi del Libano alle città italiane. E gli altri Stati europei? Stentano anche solo ad accettare i ricollocamenti (stabiliti in plenaria e Bruxelles nel settembre 2015), arrivati oggi alla cifra ridicola di 18mila sui 160mila preventivati, poco più del 10 per cento. “Ma i corridoi sarebbero l’unica soluzione percorribile, sono anni che lo diciamo”, sottolinea Regina Catrambone del Moas, raggiunta da Vita.it mentre si trova sulla nave Phoenix che ha lasciato meno di 24 ore fa la terraferma per una nuova missione umanitaria e ha già raccolto a bordo 400 persone di tre barconi diversi, trovandosi ora in attesa di indicazioni da parte del Comando centrale. “Con la stessa Unhcr, l’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani, è almeno un anno che stiamo cercando di trovare un punto anche in Libia con un minimo di sicurezza per fare la selezione dei potenziali rifugiati e permettere loro di venire in Europa – come dice la Convenzione di Ginevra – tutelando la loro vita e non dovendo subire le angherie dei trafficanti”, aggiunge Catrambone.

Bandiere e ipocrisie
Salvare vite potrebbe dipendere però dalla bandiera della tua nave: per chi, come Zerai, da anni è coinvolto nel dramma dei salvataggi in mare, sentire parlare di “accesso ai porti italiani negato alle navi a seconda della bandiera di appartenenza” significare fare un balzo sulla sedia ai limiti del surreale. “Cos’è, un’altra scusa per limitare l’opera di salvataggio di alcune ong? Impediamo solo per quel motivo di trasbordare persone che hanno bisogno di aiuto urgente? Al centro del ragionamento c’è la persona, la sua dignità oppure il mero ragionamento legato a quale bandiera batte un’imbarcazione?”, chiede il sacerdote eritreo, che oggi vive tra la propria diocesi in Svizzera e Roma. Il caso del Moas, Migrant offshore aid station, ong con sede a Malta (ma che “è già registrata anche in Italia e comunque come ogni altra organizzazione europea ha la possibilità di agire in ogni Stato membro”, specifica Catrambone per fare chiarezza su alcuni dubbi sorti in passato tra l’opinione pubblica e non solo), è il simbolo di tutta la questione e forse è uno dei bersagli di chi ha fatto scorrere la voce di questa nuova proposta: “la nostra nave batte bandiera del Belize, sì”, continua la fondatrice del Moas. “Il motivo? Nel 2014, quando abbiamo chiesto l’autorizzazione anche a vari paesi europei spiegando l’attività che volevamo fare, le bandiere stentavano ad arrivare. Ma era urgente uscire in mare, le barche dei trafficanti erano in forte aumento e la chiusura dell’Operazione mare nostrum (avvenuta il 31 ottobre di quell’anno, dopo 12 mesi di attività, ndr) creava di fatto un vuoto nei salvataggi: per questo abbiamo accettato la prima che ci fu data, ovvero quella del Belize”. Anche lei è sconcertata dalla paventata possibilità di chiudere i porti (anche se ciò avrebbe delle conseguenze, se ne parla in questo articolo), ma nel frattempo la sua ong continua l’opera per al quale in meno di tre anni ha portato in salvo decine di migliaia di persone ricevendo un encomio, tra gli altri, da Papa Francesco. “La navi delle ong hanno colmato in questi anni il vuoto nei salvataggi lasciato dalla Ue e dalla stessa Frontex, che non sono state in grado si sostituire adeguatamente Mare nostrum”, riprende Mussie Zerai. “Ora da qualche tempo si è introdotta l’idea di togliere queste navi umanitarie: lo facciano pure, ma solo a fronte di un serio progetto europeo che le sostituisca”. Altrimenti, “basta ipocrisie o ricerche di cavilli: la priorità è salvare vite, se viene meno significa che tutti i trattati di solidarietà firmati in passato sono carta straccia”.


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