Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Comitato editoriale

Da Palermo a Milano: l’educatrice Luisa Maria Gloria si racconta

È arrivata il 23 aprile. Ma è già “dentro” la Casa di Accoglienza di Arché con il cuore e con la sua passione. Si chiama Luisa Maria Gloria Martino, ha 37 anni ed è venuta a Milano per un’esperienza di “scambio di buone pratiche”. Infatti lavora al Centro di accoglienza Padre Nostro, fondato da don Pino Puglisi, a Palermo. Ecco le sue impressioni, i suoi spunti, somiglianze e differenze rispetto alla realtà da cui proviene

di Redazione

È arrivata lunedì scorso, il 23 aprile. Ma è già “dentro” la Casa di Accoglienza di Arché con il cuore e con la sua passione. Si chiama Luisa Maria Gloria Martino, ha 37 anni ed è venuta a Milano per un’esperienza di “scambio di buone pratiche”. Infatti lavora al Centro di accoglienza Padre Nostro, fondato da don Pino Puglisi, a Palermo. È psicologa e psicoterapeuta ma al centro siciliano lavora come educatrice da sei anni, dopo una lunga esperienza come volontaria. E così, mentre Roberta Sabbatini in queste settimane è a Palermo, Luisa Maria Gloria è a Milano per fare esperienza. Già all’indomani del suo arrivo infatti ha cominciato con un turno effettivo. Ecco le sue impressioni, i suoi spunti, somiglianze e differenze rispetto alla realtà da cui proviene.

“Molte dinamiche che vedo qui in casa accoglienza sono simili a quelle che accadono a Palermo. Si respirano situazioni pesanti alle spalle delle mamme e dei bambini, si percepisce che arrivano da mondi emotivi difficili, intensi, spesso fatti di violenza e sofferenza. Sono mondi che non vengono raccontati a parole ma che emergono nel quotidiano dai loro modi di fare, leggendo tra le righe delle interazioni che le mamme hanno tra loro, o con i loro figli, o con gli educatori. Ci sono modalità difficili da scardinare.

Da quando sono qui per esempio ho già assistito ad una accesa discussione tra una mamma e sua figlia adolescente. Anche se la mamma ha fatto tanti progressi, nel gestire la ragazzina sono uscite nuovamente dinamiche aggressive, modi bruschi, parole taglienti. Ti accorgi che provengono dal modo in cui la mamma stessa è stata trattata, dal compagno, o dai suoi stessi genitori nella famiglia d’origine. Gli educatori offrono una modalità di interagire diversa. È un tentativo di mostrare un altro modo di gestire le situazioni tese, per far vedere loro che esistono altre strade, meno impulsive. Poi sta alle mamme coglierle. Sta alla loro sensibilità, ma anche al loro percorso.

Sono cose che troviamo anche nella nostra casa di accoglienza di Palermo. Ci sono mamme straniere e mamme italiane, proprio come qui. E come qui, le mamme straniere hanno modi di educare i figli completamente diversi. Per esempio le mamme africane sono più improntate verso l’autonomia dei bambini. Una cosa diametralmente opposta alle mamme siciliane per le quali la separazione e il distacco dai figli sono fasi, eventi, possibilità quasi da temere. È lì che avviene la negoziazione dell’educatore. Perché distacco è anche crescita.

Qui in casa accoglienza lavoro in compresenza con i colleghi milanesi. Ma noto cose che sono uguali a quelle che accadono da noi. Un esempio: i bambini ci mettono meno tempo a stabilire un contatto, le mamme sono più diffidenti.I bambini si confidano, giocano, le madri ci arrivano dopo. Io però non sono una tipa timida. Parlo, interagisco, anche perché voglio capire, imparare.

Sono mamme ma non hanno interiorizzato a pieno la loro funzione materna. A volte vogliono essere accudite loro come se fossero loro le minori. Certi meccanismi disfunzionali del passato riemergono nel loro rapporto con i figli e questi modelli sono interrotti dagli educatori che ne offrono uno diverso.

Noto anche che accade anche qui una cosa simile: le mamme che arrivano all’inizio sono diffidenti e restie. Soffrono il fatto di stare in una comunità, soffrono delle limitazioni che ci sono. I bambini invece migliorano subito. Spesso arrivano con i tratti del volto tesi, magrolini, ma dopo pochi mesi cambiano, hanno un volto più rilassato. Il motivo? Si sentono più protetti. Vengono tolti da ambienti e contesti di tensione e si rilassano subito.

Anche noi abbiamo avuto casi in cui le mamme hanno dovuto essere allontanate dai bambini. Decisioni prese perché le abbiamo ritenute la scelta migliore. Può succedere infatti che dentro la comunità emergano altre verità: che la figura maltrattante non fosse solo il padre ma anche la madre. O a volte sono le madri stesse che scelgono di tornare dal compagno violento, o ancora spariscono, lasciando i bambini in comunità. Poi magari scopri che i genitori delle mamme avevano fatto la stessa cosa.

Da noi vige ancora una mentalità dura da scalfire. Che se le donne prendono le botte dal marito è una cosa normale. Se lo sono meritate. Così, quando denunciano, per noi è una vittoria, un grande passo avanti che tendiamo a valorizzare moltissimo. Non è facile e ci fa sempre ben sperare. Sempre più mamme nel tempo trovano il coraggio di farlo e questo è un segnalo positivo del fatto che questa mentalità forse si stia un po’ sgretolando.

Abbiamo sempre mamme molto giovani che arrivano da quartieri difficili: lo Zen, Brancaccio, Ballarò. Spesso si conoscono tra loro: “Ah, ma tu sei quella a cui hanno arrestato il marito per questo motivo”. Questo ha dei risvolti negativi: accade che si “contagino” tra di loro in modo negativo, assorbendo le dinamiche reciproche. Te ne accorgi anche dai bambini: se ci sono parolacce che non conoscono, ecco che a contatto con gli altri figli le imparano subito.

Rispetto a Milano poi noto caratteristiche diverse: le nostre mamme voglio intervenire su tutto. Hanno un atteggiamento diverso da quelle milanesi. Forse più invadente, forse meno discreto. Mettono bocca sui turni, sulle scelte, contestano e polemizzano. Solo che per noi indica che si sentono o vogliono sentirsi parte di una realtà. Quando arrivano, come dicevo, dicono spesso frasi come: “Mi sento in carcere”, oppure “Perché non posso uscire quando voglio, cos’è una galera?”, invece dopo un po’ ecco che le senti dire: “Devo tornare a casa”, dove la casa è la comunità. Ecco che nasce il senso di appartenenza. Questa ambivalenza permane sempre: inizialmente dunque si sentono riluttanti ma poi iniziano a sentirsi parte del centro Padre Nostro (tranne quando si arrabbiano per qualche motivo).

Sono donne che hanno vissuto una vita molto isolata e poco radicata sul territorio. Noi abbiamo un detto: “Essere nuddu ammiscato cu nnenti”. Che vuole dire: essere nulla mischiato col niente. Significa che i legami familiari sono rotti, magari anche coi genitori e le famiglie di origine, significa non avere una rete, non sentirsi parte di niente. Ecco perché quando iniziano a sentirsi parte del centro, e partecipano ai banchetti, agli eventi, e lo dicono, lo rivendicano agli altri palermitani, per noi è sempre un evento nuovo e sorprendente. Significa che siamo riusciti ad agganciare dentro di loro qualcosa che, forse, germoglierà.