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Stabilità 2018 – Nascono le imprese culturali e creative

di Alessandro Mazzullo

La novità della Legge di Stabilità

La Legge di Stabilità per il 2018 ha introdotto una nuova qualifica giuridica.

Parliamo delle imprese culturali e creative, ovvero di enti (società, ma anche associazioni, fondazioni, ecc.) che operano in un settore strategico per il nostro Paese.

Ad esse è oggi riconosciuto un credito d’imposta del 30% su alcune spese fondamentali[1].

L’importanza del settore

Secondi recenti dati[2], al sistema produttivo culturale e creativo[3] si deve il 6% della ricchezza prodotta in Italia: 89,9 miliardi di euro.

Dato in crescita dell’1,8% rispetto all’anno precedente. Calcolando gli effetti sul resto dell'economia si ha, invece, un effetto moltiplicatore pari a 1,8.

In altri termini, per ogni euro prodotto dalla cultura se ne attivano 1,8 in altri settori. Gli 89,9 miliardi, quindi, ne stimolano altri 160 per arrivare a quei 250 miliardi prodotti dall’intera filiera culturale, il 16,7% del valore aggiunto nazionale, col turismo come principale beneficiario di questo effetto volano.

Più di un terzo della spesa turistica nazionale, esattamente il 37,9%, è attivata proprio dalla cultura e dalla creatività.

Al provvedimento, dunque, va il grande merito di aver cercato di catalizzare nuova attenzione su un driver economico e sociale così importante.

Sì perché la specificità di queste imprese sta proprio nella capacità di conciliare valore economico, valore culturale e valore sociale[4].

Un esempio, tra i tanti, che ho avuto la possibilità di conoscere personalmente: quello delle catacombe di San Gennaro, a Napoli, nel Rione Sanità. Un’esperienza che ha saputo recuperare alla città, giovani a rischio di emarginazione sociale; ma anche un patrimonio culturale (un bene comune), a rischio di emarginazione culturale, e con il quale è stato possibile anche generare nuova ricchezza, incrementando esponenzialmente gli incassi. Per un altro esempio vedi qui.

La novità è il frutto dell’incorporazione ed implementazione del precedente disegno di legge Ascani, su cui avevamo già acceso i riflettori in un precedente post.

Il dubbio! Un'altra etichetta?

Riparto, pertanto, da quelle considerazioni per riproporre un interrogativo.

Abbiam davvero bisogno di nuove etichette (o qualifiche) giuridiche?

Non bastavano, ad esempio, quelle, altrettanto recenti, di ETS, o di impresa sociale, o di società benefit?

Si tenga presente, peraltro, che la cultura rappresenta uno specifico settore di interesse generale che qualifica, in quanto tale, sia gli Enti del Terzo Settore[5], che le imprese sociali in quanto tali[6].

Lo strumento tecnico ed i suoi rischi

Sta di fatto che la qualifica giuridica, a torto o a ragione, è sempre più spesso ritenuta lo strumento più idoneo:

  • per marcare, sul piano della competizione di mercato, la propria specialità, quantitativa e qualitativa;
  • per rivendicare fondi o agevolazioni altrettanto speciali, sul piano delle politiche pubbliche.

Eppure, lo strumento tecnico non è esente da rischi.

Mi limito ed enunciarne due, rinviando ad un paper scientifico, in corso di pubblicazione, per un ulteriore approfondimento tecnico[7]:

  • il rischio di quella che gli economisti chiamano “cattura regolatoria”. Vi è anche chi ha efficacemente parlato di “sindrome di Stoccolma”, in base alla quale un soggetto finanziato si conforma in modo rigido alle prescrizioni regolamentari in modo da catturare il finanziatore pubblico, rinunciando per questo a estesi spazi di libertà progettuale, creativa ed espressiva[8].
  • il rischio che ho chiamato di “bulimia qualificatoria”. Si pensi, in particolare, a quei soggetti che cumulino in sé due o più qualifiche (impresa sociale, cooperativa sociale, start up innovativa, ETS, società benefit, ecc.) e, con esse, due o più regimi giuridici. O si pensi a quelle qualifiche che sottendono definizioni talmente estese (come nel caso delle imprese culturali e creative) che finiscono per dequalificare l’intero settore.

Tanto ciò è vero che la definizione legislativa adottata per le imprese culturali e creative è tutt’altro che univoca ed esente da incertezze interpretative.

E allora, nonostante il merito politico dell’iniziativa, permangono dubbi sull’utilità tecnica di una qualifica legislativa priva di indicazioni definitorie sufficientemente determinate che rischia di liquefarne il valore, come anche l’esigua copertura finanziaria[9].

Dalla Qualifica alla Qualità dell’impatto sociale e culturale

Piuttosto, c’è da chiedersi se non sia arrivato il momento di impiegare quei fondi per l’implementazione di un sistema di certificazione della qualità dell’impatto culturale e sociale prodotto[10].

Il passaggio da compiere, la frontiera giuridica ed economica da sfondare, a mio modesto avviso, è questa: occorre passare dalla qualifica giuridica, alla certificazione giuridica della qualità!

Di imprese con qualifiche ne esistono già tante. Di imprese con qualità meno. Disinvestiamo dalle prime per promuovere le seconde ed incentivarne di nuove.

Come? Cominciamo ad implementare seriamente un sistema di metrica cui sottoporre, volontariamente, le imprese che intendano fregiarsi non tanto di una qualifica, quanto di una qualità accertata, controllata e garantita.

Si tratta di una sfida non facile, è bene dirlo. Innanzitutto, perché non tutto ciò che vale conta, e viceversa. In secondo luogo, perché una certa parte del mondo sociale, culturale ed anche imprenditoriale non è ancora pronto sul piano dell’accountability, preferendo rifugiarsi dietro un sepolcro imbiancato, come quello di un’etichetta giuridica, piuttosto che dietro la sostanza di una qualità effettivamente riconosciutagli.

Eppure, in altri campi, siam stati costretti a misurare elementi immateriali come il valore di un marchio, di una ditta, di un avviamento, di un danno all’immagine, ecc.

Impareremo a valutare anche l’impatto sociale ed ambientale delle nostre azioni imprenditoriali. E sarà quella la nuova frontiera per una competizione positiva incentrata sulla massimizzazione del bene comune, e non più del solo lucro soggettivo.


[1] Il comma 57 prevede un credito d’imposta pari al 30% delle spese sostenute per attività di sviluppo, produzione e promozione di prodotti e servizi culturali e creativi, secondo le modalità stabilite con il decreto di cui al comma 58. Per approfondimenti scientifici, sia consentito il rinvio ad A. Mazzullo, Stabilità 2018 – Le imprese culturali e creative, in corso di pubblicazione su il Fisco, Ipsoa n. 5, del 2018.

[2] Cfr., in particolare, i dati del Rapporto 2017 “Io sono cultura – l’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi”, elaborato da Fondazione Symbola e Unioncamere. Vedi pure l’interessante rapporto di Federculture, Impresa Cultura. Gestione, innovazione, sostenibilità, Roma, 2017.

[3] Industrie culturali, industrie creative, patrimonio storico artistico, performing arts e arti visive, produzioni creative-driven.

[4] Si vedano le interessanti riflessioni: di C. Bocci, La gestione tra tutela e valorizzazione; F. Zandonai e P. Venturi, L’impresa di comunità nei processi di innovazione culturale; C. Fiaschi, Cittadinanza, socialità ed economia del futuro oltre le macerie dei nostri terremoti. Consultabili sempre in Federculture, Impresa Cultura. Gestione, innovazione, sostenibilità, cit.

[5] Rinvio ad A. Mazzullo, Il nuovo Codice del Terzo Settore. Profili civilistici e tributari, Giappichelli, 2017.

[6] Che esista un problema di coordinamento con la recente riforma del Terzo settore, d’altronde, è ulteriormente provato dal comma 58 della Legge di Stabilità per il 2018 che rinvia ad un successivo regolamento per le “necessità di coordinamento delle disposizioni del codice del Terzo settore”.

[7] A. Mazzullo, Stabilità 2018 – Le imprese culturali e creative, op. cit.

[8] Cosí M. Trimarchi, Prodotto, impresa, politiche. Un glossario per il Sistema culturale, in Impresa cultura, 13 Rapporto annual di Federculture, Roma, 2017, pag. 41.

[9] Il comma 57 prevede un limite di spesa di 500.000 euro per l’anno 2018 e di un milione di euro per ciascuno degli anni 2019 e 2020, fino ad esaurimento delle risorse disponibili.

[10] Traguardo ambito dalla stessa Riforma del Terzo settore (v., l’art. 9, comma 1, lett. a) della legge delega), ma ancora non del tutto raggiunto. Sull’importanza del tema, per tutti, vedi P. Venturi, La questione della misurazione dell'impatto sociale. Proposta di un percorso intenzionale, sul n. 6/2017 di Welfare Oggi. Si veda, sempre su questo fronte, l'iniziativa Human foundation per creare un Fondo per politiche Pbr (pay by result): v. G. Melandri, intervistata sul Corriere della Sera del 13 dicembre 2017.


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