Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Alessandro Ingaria

Il sindaco cooperante che sta battendo la Lega

di Anna Spena

Piccoli numeri. Accoglienza diffusa. Gestione statale e non solo privato sociale dei richiedenti asilo che arrivano in Italia. È questa la formula - di successo - di un comune di 550 abitanti in provincia di Cuneo. «Solo così», racconta il sindaco, «possiamo costruire percorsi personalizzati sulle persone che arrivano e non trattarle solo come semplici numeri. È investendo sulle loro potenzialità che diventano parte integrante della comunità che li accoglie»

Priero, comune di 550 persone in provincia di Cuneo, Piemonte. La carica di sindaco la ricopre da 4 anni Alessandro Ingaria, 42 anni, viedeomaker e documentarista di professione, con un passato nella cooperazione internazionale. «Sono stato in Ecuador, Colombia, Afghanistan», racconta, «poi sono tornato con il desiderio di continuare a lavorare nel sociale. E ho deciso di darmi da fare per la mia comunità riportando qua in Italia la visione, la conoscenza e le competenze accumulate negli anni passati all’estero».

Ma perché la storia di questo piccolo comune del nord Italia, del suo sindaco e dei cittadini che lo abitano è cosi importante? Ecco, i luoghi, anche piccoli, sono microcosmi. Spesso capita che siano “lo specchio dell’Italia”; a volte capita – e questo è il caso – che è l’Italia che dovrebbe rifarsi a loro, guardare quello che “fa il piccolo” e replicarlo su larga scala.

A Priero dal 2017 ad oggi hanno vissuto 7 migranti, oggi ce ne sono cinque. Numeri piccoli, starete pensando. E se l’accoglienza e il percorso di convivialità e integrazione vero passasse da qui?

Sindaco, quando avete iniziato ad accogliere i primi migranti?
Era il 2017, in pieno boom emergenza profughi. L’anci (associazione nazionale comuni italiani) e il ministero dell’Interno avevano siglato un accordo quadro: per ogni 2mila abitanti in comune potevano essere ospitati fino a sei richiedenti asilo. E così abbiamo accolto 6 giovani provenienti giovani dal Pakistan e dal Bangladesh.

Qual è stata la prima reazione dei suoi concittadini?
All’inizio ci sono state tante rimostranze. La grande rivoluzione è stata questa: percepirli come altri membri della comunità.

Com’è avvenuta questa trasformazione?
Tutto sta su come si implementano i percorsi si inserimento. Innanzitutto credo che sia fondamentale lavorare sui piccoli numeri e non su quelli grandi. Quindi per arrivare ad un percorso di convivenza che funzioni bisogna costruire delle strade differenziate per i ragazzi. Non vederli come un’unica massa. Dobbiamo imparare a conoscere le loro peculiarità, le loro skills, ed anche i loro desideri. Se li prendiamo tutti e li mettiamo a fare lavori di decoro pubblico, come pulire le strade, non ci stiamo ponendo il problema di capire quali sono le capacità di quel ragazzo e i possibili ambiti e sbocchi dove le persone possono vedere sviluppato il loro progetto di vita che li motiva a sviluppare competenze.

Come si è comportato nel suo comune?
Dopo aver proposto loro di seguire alcuni corsi professionalizzanti, ci siamo accorti che erano molto interessati al mondo della ristorazione. Alcuni hanno dimostrato voglia di impegnarsi e li abbiamo indirizzati verso qualche stage.

Quindi qual è la soluzione?
Credo, vista anche l’esperienza del mio comune, che la soluzione si trovi in questo incrocio: lavorare con i piccoli numeri e far gestire l’accoglienza allo stato e non al privato sociale.

I piccoli numeri
È inutile prendere in carico troppe persone. Il rischio è quello di avere nella stessa struttura cento, duecento, trecento persone. E non è più una comunità che entra in un’altra comunità. Ma si crea – com’è già successo in alcuni casi – un ghetto. Per questo il reale valore aggiunto, quello che fa la differenza è l’accoglienza diffusa. Piccoli numeri appunto ma divisi su tutto il territorio nazionale. In tutti i piccoli comuni e in tutti i quartieri delle grandi città, non solo in quelli di periferia. E allora sì che la comunità si fa accogliente perché non viene spaventata dai numeri e riesce ad interagire. Se invece continuiamo a concentrare le persone tutte in un posto solo è normale che facciano gruppo a sé, non sono motivati ad imparare l’italiano e vengono percepiti male dagli altri cittadini.

E la gestione pubblica?
È l’altro aspetto fondamentale. Il privato sociale non può essere il soggetto che gestisce. Ultimamente giro spesso per partecipare a conferenze sulla questione dell’accoglienza e raccontare il modello di Priero. Una sensibilità che sta emergendo è il bisogno che i fondi europei vengano dati direttamente ai comuni, che sono più veloci e reattivi. Lo stesso vale per i visti: devono passare per l’ufficio dell’anagrafe comunale. Un richiedente asilo non può in due anni andare quattro volte in questura. Così si sprecano risorse e tempo e non si arriva a niente se non ad una strumentalizzazione inutile.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA