Fulvio Ervas

L’antidoto per questa società di cannibali

di Sara De Carli

Ha raccontato la storia di Franco e Andrea, padre e figlio, e il loro essere viaggio - sempre on the road - con l'autismo. Quella storia è appena diventata un film di Salvatores. Ma Fulvio Ervas si presenta come un «bravo ortolano» e dice che solo la cura può salvarci dall'entropia. Per impararla? Si può cominciare da un orto

«Cos’è la cura? È l’antidoto a una società di cannibali». È icastica e fulminea la risposta di Fulvio Ervas a una domanda tanto generica da essere supponente. Ervas – scrittore da 300mila copie con Se ti abbraccio non avere paura, docente di scienze naturali in un liceo (chimica e biologia, sostanzialmente, precisa), si definisce in realtà «un bravo ortolano» e un «agronomo prestato alla scuola». «Anche l’orto è cura», aggiunge: «occorre aguzzare molto l’ingegno per capire le piante, ma curare le piante è un grande esercizio per imparare a curare se stessi e poi gli altri. Per questo sarebbe da far fare a tutti i ragazzini».

Fulvio Ervas questa mattina era in classe. Pochi giorni fa era a Venezia, per la proiezione, al Festival del Cinema, di Tutto il mio folle amore a firma di Gabriele Salvatores, tratto dal suo libro più celebre. Il 17 ottobre invece, a Castelnuovo del Garda, porterà Se ti abbraccio non avere paura a "Ben-Fare. Persone di qualità per enti di eccellenza". Il fil rouge fra tutte queste cose, così apparentemente distanti fra loro, è proprio la cura.

Ervas, la prima domanda per lei in questo momento non può che essere su Venezia. Com’è aver scritto un libro – quello che racconta l’on the road di Franco e Andrea e l’autismo – che non solo è diventato un film, ma un film di Salvatores, che ha avuto una standing ovation a Venezia?
Naturalmente sono molto contento. Sono anche un po’ sorpreso, perché quando ho scritto la storia di Franco e Andrea non pensavo – nessuno di noi lo pensava – che potesse trovare un pubblico così ampio. Volevamo raccontare una piccola storia e invece quella storia ha toccato la sensibilità di tante persone. E anche di Salvatores. È stato molto bravo: il rapporto tra padre e figlio ad esempio è molto poetico. L’autismo si vede, non ha fatto una storiellina, ci sono le stereotipie, le difficoltà verbali…

Perché secondo lei il libro ha avuto tanto successo?
Ha raccontato l’autismo con un po’ di positività in più: non che ci voglia solo quella, ma un po’ di positività fa bene. Le persone leggendo la storia di Franco e Andrea hanno percepito il messaggio “ce la si fa”. In questi anni devo dire anche che c’è molta più attenzione sull’autismo, più luce, se ne è parlato in modo diverso. Il libro fa vedere che anche con la disabilità è possibile spostare un po’ i limiti: non sempre funziona, ma a volte sì e comunque conviene sempre provarci. Io ho girato l’Italia con il libro, ricordo un papà molto commosso che alla fine di una presentazione si è avvicinato dicendomi “pensavo che con mia figlia non potevo fare nulla, invece dopo aver letto il libro l’ho messa in moto e abbiamo girato l’Europa. Grazie!”. A volte bisogna un po’ osare perché alcuni limiti, se proviamo a forzarli un po’, scopriamo che sono spostabili. Franco e Andrea sono diventati la coordinata zero con cui misurarsi, uno stimolo, una unità di misura: lui ha fatto cento, io cento non riesco, ma qualcosa in più lo posso fare anch'io. Ha dimostrato che alcune cose si possono fare, anche con l’autismo: e per chi vive chiuso, uscire e provare a fare cose è una medicina.

Lei presenterà questo libro in un contesto dedicato alla qualità della cura in RSA, con gli anziani. Cosa fa la buona cura?
La buona cura dipende dal contesto e dal soggetto. Chi fa buona cura, non può non farla con passione, competenza, qualità. La buona cura la fa il soggetto per cui la relazione con gli altri è baricentro dell’esistenza. Senza una forte componente di empatia il meccanismo della cura non funziona: l’empatia è il catalizzatore.

Si parlerà di ben-fare e benessere. Curare è questione del fare o dell’essere?
Curare è fare per essere meglio. È l’interfaccia tra esistere ed esistere con dignità: per questo curare non è una cosa automatica né gratis. La cura è una colla che mette assieme azioni programmate, pensate, che fanno la civiltà. Prendersi cura è il collante del gruppo. È proprio la cura che fa di noi un gruppo che evolutivamente ha avuto successo: se avessimo avuto solo l’odio e il conflitto, ci saremmo già estinti. Cura è guardare, fermarsi, essere capaci di sentire gli altri, avere gli altri all’interno del “volume” della propria vita: la cura è sempre un luogo inclusivo. Curare non è guarire: è spendersi, portare l’altro sulle spalle, ma anche portare energie, visione… e portarli sugli altri: se sei un narciso egoista in te non c’è spazio per la cura. Ovviamente questo è un tema che non riguarda solo alcune categorie di persone: ad esempio anche in classe se non hai la cura, nulla funziona.

Quindi quali sono le parole chiave della cura?
La cura è portare armonie e connessioni, è il contrario dell’entropia, del disordine e del rumore caotico a cui siamo abituati. La cura è un progetto di avanzamento sociale, è propria di una società avanzata: possiamo avere anche poche risorse, ma è una questione di visione.

È un po’ questo quindi il salto? Dalle best practice a una visione di impatto sulla comunità?
È questo che dà profondità e durata. Se la nostra idea di cura è – lo dico brutalmente – "facciamo soldi con gli anziani", finisce lì. Ma se educhi la società e le nuove generazioni a curare, all’armonia, alle connessione, all’idea che si sta insieme… cambia tutto. La cura è l’antidoto a una a società di cannibali.


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