Anna Contardi

Persone con sindrome di Down: i 10 pregiudizi da sfatare

di Sara De Carli

Sapevate che in Italia il 60% delle persone con sindrome di Down è adulto? E che siamo il paese europeo con la percentuale più alta, fra di essi, di lavoratori? E che se dite "affetto da" sindrome di Down, magari pensando di essere politically correct, in realtà state sbagliando? La coordinatrice nazionale di AIPD ha scritto un libro con le 10 cose che le persone con sindrome di Down vorrebbero che tutti sapessero (a cominciare dai compagni di classe)

«Da 40 anni combattiamo un’unica malattia: il pregiudizio». È questa la frase che campeggia sul camper del “DownTour” di AIPD, che in sette mesi ha attraversato l’Italia. Che la sindrome di Down non sia una malattia è una dei pregiudizi più difficili da smontare ma Anna Contardi la cita fra le più urgenti, per le implicazioni che ha: «Dire “affetto” da sindrome di Down intanto identifica le persone come malati, da curare e assistere. Invece con una persona ci entri in relazione. La Sindrome di Down è una caratteristica: non è che se in un campo di fiori sono tutte rose e in mezzo c’è un geranio quello è una rosa senza spine… No, è un altro fiore», dice Anna Contardi, coordinatore nazionale di AIPD.

Anna – assistente sociale – da 38 anni lavora in Associazione Italiana Persone Down (che all’inizio si chiamava Associazione Bambini Down): ha scritto un libro dal titolo accattivante, Le 10 cose che ogni persona con sindrome di Down vorrebbe che tu sapessi. Ma basta il suo nome (e quello della casa editrice, la Erickson), per capire che non si tratta della solita lista delle cose da fare, leggere, vedere… che tanto va di moda. Piuttosto è una esplorazione di dieci aree, sfatando altrettanti pregiudizi: «sono tutti uguali», «sono tutti affettuosi», «sono eterni bambini»… Cominciando – ovviamente – dal «Down non vuole dire giù».

Anna, come è nato questo libro?
Su proposta dell’editore, ma non è ricettario né un decalogo per affrontare l’incontro e la relazione con una persona con la sindrome di Down. Non lo è non per snobismo ma semplicemente perché con le persone con sindrome di Down, come con tutte le persone, non esistono ricette. È l’occasione per fare un punto, fare chiarezza e buttar via alcuni via stereitipi, anche in occasione dei 40 anni di AIPD. Dal 1979 ad oggi sono cambiate molte cose: le persone con sindrome di Down vivono più a lungo, frequentano le scuole pubbliche, vanno all’università, lavorano e, quasi sempre, desiderano andare a vivere da soli (o con gli amici) una volta diventati adulti. Nel 1979 l’aspettativa di vita di un bambino con SD era di 33 anni, oggi è di 62 anni. Nel 1979 quasi tutte le persone con SD di ogni età uscivano in strada per mano coi loro genitori, oggi centinaia di persone con sindrome di Down si muovono nelle loro città e utilizzano i mezzi pubblici da soli.

Quali sono alcuni aspetti su cui c’è ancora bisogno di fare chiarezza?
Ad esempio pensare che sono tutti uguali, tutti contenti, che a tutti piace la musica. Un manifesto spagnolo, con la foto di una bellissima ragazza con SD, dice “hai gli occhi di tuo padre e il sorriso di tua madre”. È così. Questa è anche la ragione per cui, a livello internazionale, preferiamo dire “persone con la sindrome di Down” e non “persone Down”, perché nel primo caso rimetti al centro la persona, di cui la sindrome è una caratteristica – importante certo – ma non è la persona. Un’altra cosa su cui insisto è che ci da fastidio – lo fanno soprattutto i giornalisti devo dire – usano “affetti da sindrome di Down”, perché quell’espressione fa pensare a una malattia, cosa che non è. La sindrome di Down è una condizione genetica. Nel libro racconto di un’attività inventata per discutere di cosa vuol dire essere una persona con SD, nata da un episodio preciso. C’era nel gruppo una persona con SD che presentava particolari difficoltà e altre con migliori capacità, al che i ragazzi hanno iniziato a chiedersi “se tutti qui siamo persone con la SD, perché lei non è come me? E io diventerò come lei?”. È nata un’attività didattica, “Tutti uguali tutti diversi”, un gioco a cui partecipano persone con SD e no. Al centro c’è una guida, con dei nastrini colorati, che chiama alcune storie. Chi ha le scarpe da ginnastica, gli ha occhi verdi, chi ha la SD, chi sa cucinare gli spaghetti… alcune sono condizioni di transizione, altre che possono modificarsi nel tempo, altre condizioni che non si cambiano nella vita. Alla fine ogni persona del cerchio ha un mazzo di nastri colorati in mano e la guida invita ciascuno a trovare una persona con il suo stesso grappolo di nastrini: non c’è. Tutti sono unici. Se invece si cerca qualcuno con due nastrini uguali ai nostri, si vedrà che ciascuno ha in comune alcune caratteristiche con altri. Anche fra le persone con SD quelle che fanno più fatica a riconoscersi come tali, sono quelle che associano la sindrome di Down a una malattia. È un discorso sia di immagine, di come gli altri vedono la persona con SD, sia di consapevolezza.

https://www.youtube.com/watch?v=kXxvrcVPyCU

Se per l’apprendimento un bambino con SD è "diverso" e gli vanno fatte proposte mirate, per il comportamento è come tutti gli altri: non si va a scuola solo per imparare a studiare, ma anche per imparare a rispettare le regole, gli orari, ad avere rispetto delle cose e degli spazi, per imparare a orientarsi in un luogo nuovo. I compagni hanno un ruolo importantissimo nell’insegnare a fare queste cose

Dicevi che il libro non dà ricette e consigli per relazionarsi con una persona con SD, però c’è una pagina bellissima dedicata ai compagni di classe: “Cari compagni di classe ricordate che…”
Dal lavoro fatto nelle scuole, uno dei temi è quello del rispetto regole. Un bambino con SD può imparare a rispettare le regole, è un elemento di autonomia che ti porti dietro per sempre, una precondizione per tante cose. Però spesso i compagni li iper-proteggono. Il compagno con SD ti strappa quaderno e tu non dici niente. Il nostro invito ai bambini è quello a ricordare che non si va a scuola solo per imparare a studiare, ma anche per imparare a rispettare le regole, gli orari, ad avere rispetto delle cose e degli spazi, per imparare a orientarsi in un luogo nuovo come la scuola e nel tragitto da casa a scuola, a scrivere i compiti, a comportarsi in un certo modo anche quando non c’è l’insegnante… Un compagno con SD queste cose può impararle, come tutti. Fra l’altro i compagni di classe hanno un ruolo importantissimo nell’insegnare a fare cose. Quindi il consiglio ai bambini è evitiamo di permettere a un compagno di non rispettare le regole comuni, perché può impararlo come te; evitiamo di aiutare un compagno a tenere in ordine il suo astuccio o la sua cartella, perché può avere cura delle sue cose, come te; evitiamo di fare finta di niente quando un compagno si comporta male con te, perché può imparare a stare con gli altri, come te; evitiamo di trattare un compagno come se fosse più piccolo, se è nella tua classe ha la tua stessa età. Se per l’apprendimento un bambino con SD è "diverso" e gli vanno fatte proposte mirate, per il comportamento è come tutti gli altri: perché allora se tutti alla professoressa danno del lei, lui le dà del tu e la chiama per nome e magari l’abbraccia e la bacia quando entra in classe?

Il filone dell’autonomia è uno di più importanti di questi ultimi anni ed è un prerequisito per l’inserimento sociale, per il lavoro, per la vita indipendente. L’autonomia la si costruisce fin dai primi giorni, ma di fatto ancora oggi un bambino con SD ha una autonomia inferiore a quella che potrebbe avere solo perché scattano meccanismi negli altri

Quanto è importante questo discorso dell’autonomia?
Il filone dell’autonomia è uno di più importanti di questi ultimi anni ed è un prerequisito per l’inserimento sociale, per il lavoro, per la vita indipendente. E l’autonomia la si costruisce fin dai primi giorni. Di fatto ancora oggi un bambino con SD ha una autonomia inferiore a quella che potrebbe avere solo perché scattano due meccanismi negli altri: l’esplosione dell’incapacità, ossia il fatto che vedo che non sei capace di fare una cosa ed estendo l’incapacità ad altre aree, per cui faccio io al tuo posto; oppure il meccanismo dell’iperaffettività, per cui mi piacerebbe “aggiustarti” ma purtroppo non si può fare, allora ti faccio coccole perché mi fa sentire meglio, compenso la mia impotenza. Abbiamo visto invece quando la qualità degli inserimenti lavorativi negli ultimi anni sia cresciuta grazie anche a buoni percorsi di autonomia: stanno stare in relazione con i colleghi, riconoscono gli spazi collettivi, vanno al lavoro da soli in autobus e di conseguenza, slegati dai vincoli di essere accompagnati, possono cambiare gli orari lavoro con i colleghi… L’autonomia peraltro è molto collegata all’autostima, all’identità e alla percezione di sé. Spesso i ragazzi ci stupiscono per le capacità che riescono ad acquisire nei tre anni del nostro corso di autonomia e per come queste vanno a influire sulla loro autostima e sulla loro consapevolezza, nel libro ci sono alcuni dati: chi attraversa da solo, chi paga da solo, chi viene al Club da solo… A Roma, dovendo prendere in media almeno due mezzi, alla fine dei tre anni quelli che vengono da soli al Club, sono più dell’80% partendo praticamente da zero.

Oggi in Italia il 60% delle persone con SD sono adulti e i bisogni degli adulti, per certi versi inediti, sono la sfida: la vita indipendente non come "dopo di noi" o come risposta a una emergenza, ma come evoluzione naturale, come uscire di casa perché vogliono vivere con i loro amici o con la loro compagna

AIPD compie 40 anni. Quali sono le sfide che vede per domani?
La sfida più grande è la necessità di un grosso potenziamento della vita indipendente. Il cambiamento maggiore che abbiamo visto in questi 40 anni è l’aspettativa di vita, come dicevo all'inizio. Oggi in Italia il 60% delle persone con SD sono adulti e i bisogni degli adulti, per certi versi inediti, sono la sfida: la vita indipendente non come "dopo di noi" o come risposta a una emergenza, bensì come evoluzione naturale, come uscire di casa perché vogliono vivere con i loro amici o con la loro compagna. Ormai ci sono diverse esperienze, nel libro racconto anche di una coppia che si è sposata… la sfida del futuro è rendere possibile a un maggior numero di persone questa realtà, che però chiede un po’ di sostegno nella preparazione e nella vita quotidiana. D’altro canto però c’è la preoccupazione per i piccoli, soprattutto sull’aspetto sociosanitario, perché pur avendo tutte le leggi necessarie, ci sono ancora famiglie costrette ai viaggi della speranza, la sindrome di Down deve rappresentare lo stesso handicap per un bambino che nasce a Roma, a Messina o a Belluno. Un’altra sfida è il lavoro, sapendo che abbiamo fatto tanto: in Italia le persone adulte con SD che lavorano sono fra il 13 e il 16%, mentre all’esterno non si arriva all’8%.

Un primato positivo, una volta tanto!
Ho fatto una ricerca all’interno della rete europea, raccogliendo questionari da circa 20 Paesi, d’accordo, sono dati riferiti dalle associazioni, ma è una realtà. All’estero c’è molto lavoro protetto e molta meno presenza nel libero mercato.

A cosa è dovuto?
L’Italia porta nella sua storia l’inclusione scolastica, da tanti anni. Da lì nasce una mentalità che accetta più facilmente che ci sia inclusione anche nel lavoro: mi è capitato tante volte di sentirmi chiedere con stupore “ma che paga queste persone? L’azienda?”, perché in altri paesi c’è più la logica degli interventi pubblici. Negli ultimi 10 anni inoltre l’associazionismo ha spinto tanto, AIPD per esempio ha seguito 200 contrati andati a buon fine: un numero piccolo e insieme grande, calcolando che non ce n’era uno.

Foto di copertina by Nathan Anderson on Unsplash


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