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«Pronto ragazzi, ci siete?». Così ad Aversa si contrasta la povertà educativa

di Sabina Pignataro

Grazie al progetto REACT, un’iniziativa finanziata dall’impresa sociale “Con i bambini” con capofila WeWorld, i ragazzi che frequentano le scuole medie e le loro famiglie possono trovare al centro di aggregazione Lo Snodo un servizio di doposcuola, percorsi di orientamento e uno sportello di supporto per i genitori

«Da quando è scattata l’emergenza Coronavirus e le scuole e i centri di aggregazione sono stati chiusi, io e le mie colleghe facciamo le educatrici a distanza», racconta Antonella Cotugno (nella foto qui sotto), che coordina un progetto rivolto 25 adolescenti di Aversa, cittadina della provincia di Caserta, le cui famiglie vivono in condizioni di povertà ed emarginazione.

«Il nostro obiettivo, che in questi giorni è diventato urgenza, è mantenere la continuità delle relazioni», sottolinea la coordinatrice. «I nostri ragazzi hanno un grande bisogno di sentire e sperimentare che i legami e le amicizie che sono nate in questi due anni non sono andate in fumo. Perciò- dice- il cellulare, e il gruppo su whatsapp, sono diventati gli strumenti attraverso i quali noi diciamo: “Ci siamo, non vi lasciamo soli”».

Da due anni infatti, grazie al progetto R.E.A.C.T, Reti per Educare gli Adolescenti attraverso la Comunità e il Territorio, un’iniziativa finanziata dall’impresa sociale “Con i bambini” con capofila WeWorld, i ragazzi che frequentano le scuole medie e le loro famiglie possono trovare al centro di aggregazione Lo Snodo un servizio di doposcuola, percorsi di orientamento e uno sportello di supporto per i genitori.

«Poi da quando siamo tutti a casa, in quarantena, siamo in contatto più frequente con i ragazzi con whatsapp. Tramite il gruppo già esistente ma anche con contatti individualizzati per i compiti», spiega la coordinatrice. «Portare avanti una relazione a distanza, però, non è facile. Anche se in questi due anni noi educatrici siamo diventate le loro confidenti, ora alcuni di loro faticano a raccontare i propri vissuti per telefono. A volte ci chiamano e ci raccontano una barzelletta, o una cosa che hanno visto alla televisione. Parliamo un po’ del più e del meno. Ci vuole tempo prima di riescano a rompere gli argini e ci raccontino le loro emozioni, i loro desideri, le paure, le difficoltà».

Fare l’educatore a distanza, allora, aggiunge, «vuol dire affinare, quintuplicare, la capacità di ascolto anche verso ciò che non viene detto». Ogni giorno un sforzo di creatività «Per questi ragazzi che vivono in contesti di povertà educativa, il fatto di non poter uscire ed incontrare gli amici è ancora più pesante», sottolinea la coordinatrice. «I maschi raccontano spesso che trascorrono molto tempo buttati a letto, con il cellulare in mano. Una ragazza racconta che mangia, mangia tantissimo, perché si sente sola. Un’altra che gioca a carte con papà. Alcune aiutano a cucinare, a sistemare delle cose a casa».

Ogni giorno le educatrici si inventano un’attività che li coinvolga, che ci faccia sentire più vicini, che restituisca loro una speranza. Una di quelle che riscuote maggior interesse è la cucina: «Visto che lavoriamo con famiglie provenienti da tutte le parti del mondo, invitiamo i ragazzi a cucinare insieme ai genitori e a condividere con noi una ricetta tipica del loro paese: in questo modo accorciamo anche le distanze tra culture diverse». A distanza si svolge anche il cineforum: si sceglie un film, tra quelli in programmazione in tv, e poi si condividono virtualmente spunti e riflessioni.

Impotenza e frustrazione
«Fare le educatrici a distanza significa anche fare i conti con sentimenti di impotenza e frustrazione», sottolinea Cotugno. «Noi cerchiamo anche di essere utili, di fare gesti concreti per soddisfare i loro bisogni. Ad uno dei ragazzi, ad esempio, siamo riuscite a regalare uno smartphone così continua la sua didattica a distanza ed è di nuovo “connesso” con noi e i suoi amici. Ma talvolta il problema non è avere o meno un cellulare. Quello che più manca è un livello minimo di alfabetizzazione informatica. E questa è una lacuna più difficile da colmare».

La scuola è un percorso ad ostacoli
Racconta la coordinatrice che le famiglie hanno bisogno di ricevere un grande supporto tecnico informatico per fare in modo che i propri figli riescano a seguire la didattica a distanza. «Alcuni di loro non hanno mai chiesto le password per il registro elettronico, altri non sanno scaricare e accadere alle piattaforme della scuola ». Ci sono un’infinità di procedure e di passaggi da fare, prima di collegarsi, che richiedono l’intervento dei genitori, perché sono minorenni. «Sono le mamme e i papà che devono mandare una mail alla scuola, scaricare l’app, prestare il consenso, inserire dei dati. Ma loro non lo sanno fare. E noi non possiamo farlo per loro, perché l’app va scaricata sul cellulare che verrà poi effettivamente utilizzato. I genitori restano incastrati in questa matassa. Noi cerchiamo, a distanza, di guidarli nelle procedure. Oppure ci mettiamo in contatto con i Dirigenti e i docenti per trovare soluzioni. Altrimenti per questi ragazzi è impossibile rimanere agganciati ai professori e ai compagni».

La bellezza di essere un punto di riferimento
Nonostante le difficoltà, o forse proprio a causa delle difficoltà, Antonella Cotugno si sente di rivolgere un riconoscimento ai suoi ragazzi e alle loro famiglie, «che ogni giorno, nonostante tutto, ci “aprono una porta”, ci consentono di “entrare nelle loro case” anche uno tramite lo schermo di uno smartphone, mostrandoci le loro fragilità, i loro pensieri più intimi, le loro strategie più o meno funzionali per affrontare questa situazione che tanto spaventa e preoccupa ognuno di noi. Vogliamo ringraziarli per questo». Come educatori, dice, «ricevere questi “atti di fiducia” e sentirsi il punto di riferimento per qualcuno è forse il regalo più grande di questa esperienza».

A questo proposito, Alessandra Nasso, che si occupa dei laboratori educativi creativi aggiunge: «Ci siamo sempre relazionati ai nostri ragazzi come individui fragili, da proteggere, ma questa esperienza sta insegnando tanto anche a noi. Loro stanno mostrando un grado di adattamento e di resilienza che va oltre la nostra immaginazione e ad ogni videochiamata testimoniano la loro forza».

Progetti simili a quelli di Aversa sono portati avanti da Weworld anche in altri cinque comuni italiani: a Milano, (nei quartieri Bicocca, Comasina e Barona), a Torino (a San Salvario e Porta Palazzo) e a San Basilio a Roma. Gli educatori sono presenti anche nelle due isole: a Palermo (con attività nel quartiere Borgo Vecchio) e Cagliari, (tra Quartu, Sant’Elia e Pirri).

«Ci occupiamo di oltre 3mila adolescenti tra gli 11 e i 17 anni e delle loro famiglie», spiega Dina Taddia, consigliera delegata di WeWorld. «Interveniamo in quartieri periferici e isolati socialmente, con degrado urbano, elevata densità abitativa, immigrazione ed insufficiente o nulla presenza di servizi e infrastrutture».


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