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5. 1948: formazioni sociali e associazioni entrano nella Costituzione

Quella firmata nel dopoguerra è una carta esemplare per l’affermazione dei diritti della società civile, con gli articoli 2 e 18 (di Giorgio Vittadini e Luca Antonini).

di Giorgio Vittadini

Lo spazio più o meno ampio oggi riconosciuto alla relazione tra sussidiarietà, democrazia e libertà ha radici antiche. Come si è visto, quelle dell?ordinamento italiano affondano nello statalismo di fine ?800, rispetto al quale la Costituzione del 1948 cercò di segnare una decisiva evoluzione. L?assemblea costituente rappresentò, infatti, un episodio notevole di pluralismo, caratterizzato dalla singolare convergenza delle principali forze politiche (cattolica, liberale e socialista) su un testo approvato quasi all?unanimità. Nonostante differenze ideologiche di grande spessore si arrivò, in un clima di grande levatura ideale, a quella che venne chiamata la ?Costituzione di tutti?. La libertà di associazione venne riconosciuta con intensità nell?art. 18, mentre l?art. 2 proclamava il riconoscimento dei diritti inviolabili dell?uomo, “sia come singolo, sia nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità”. “Grazie a un confronto ideologico autenticamente plurale, nella Costituzione i protagonisti del proscenio giuridico si infoltiscono: non più solo lo Stato e non più solo l?individuo economico, ma altresì la persona e la comunità solidale in cui la persona si integra; non più soltanto la libertà individuale astratta che arriva a premiare unicamente l?abbiente, ma altresì la libertà collettiva che fornisce al nullatenente una dignità non declamata e verbale ma effettiva”. All?interno di questa pur decisiva evoluzione non mancarono tuttavia le ombre e la valorizzazione della tradizione di quella Welfare society che aveva caratterizzato lo sviluppo italiano non avvenne con la portata che avrebbe meritato. Appare perlomeno singolare che la parte cattolica non si sia fatta carico con la dovuta insistenza di far inserire espressamente il principio di sussidiarietà nella Costituzione. All?interno della I sottocommissione vi fu solo un ordine del giorno presentato da Dossetti che, a seguito di rinvio, non fu più messo in discussione . Eppure la Quadragesimo anno solo poco tempo prima aveva proclamato solennemente il principio di sussidiarietà. Si trattava, peraltro, di una presa di posizione che non nasceva come una speculazione filosofica ma come una riflessione sull?esperienza, che dettava la preoccupazione di salvaguardare dalle pretese di assorbimento dello statalismo fascista tutta la tradizione di Welfare society che, dagli ospedali alle banche, aveva costituito la linfa vitale dello sviluppo sociale, culturale ed economico dell?Italia. La tiepidezza rispetto a questo principio trova forse spiegazione nel particolare momento storico, di cui è figlia la Costituzione italiana, che vedeva nello Stato l?attore eminente e necessario delle politiche economiche e sociali: ad est Stalin varava i Piani quinquennali, ad ovest dominavano le teorie keynesiane. Inoltre, non va trascurato nemmeno che tra i giuristi italiani erano ancora forti le dottrine positivistiche e vi erano ancora notevoli tracce di ?Stato etico?. Il fatto che Sturzo si sentì spinto ad accusare di eccessivo statalismo il progetto di Costituzione è comunque significativo del rischio che si sarebbe corso nel successivo sviluppo dell?ordinamento. Sul presupposto che la società civile fosse impreparata a gestire il dopoguerra, si verificò infatti la sua colonizzazione politica e si favorì una concezione ?paternalistica? dei diritti sociali, all?interno della quale la proclamazione dell?art. 2 sulle formazioni sociali risultò, dal punto di vista operativo, largamente inattuata. Nella vita concreta della nuova Repubblica italiana i soggetti attivi del pluralismo sociale sarebbero stati identificati e sostanzialmente esauriti nei partiti e nei sindacati, destinando l?associazionismo e il settore non profit a un ruolo marginale e secondario. Si affermarono anche interpretazioni decisamente ideologiche dello stesso testo costituzionale, prima fra tutte quella sul ?senza oneri per lo Stato? dell?art. 33. Leggendo gli atti dell?Assemblea costituente appare chiaro che quella precisazione venne introdotta solo per evitare che a fronte del ?diritto? dei privati di istituire scuole non esisteva un obbligo di finanziamento dello Stato, non certo per proclamare un divieto di finanziamento. Per quanto si potesse ritenere poco avveduta la componente cattolica, dovrebbe apparire perlomeno paradossale che questa, pur essendo in maggioranza nell?Assemblea costituente, accettasse un testo costituzionale che pur non vietando allo Stato nessuna altra forma di sovvenzione (ad esempio, non sarebbe incostituzionale stanziare finanziamenti a favore delle imprese private che producono strumenti di sterminio di massa) proibisse categoricamente il finanziamento della scuola privata. Una ricostruzione brillante di quel dibattito è stata fatta da Mario Bertolissi (è contenuta in Scuola privata e finanziamento pubblico: un problema da riconsiderare, in Dir. Soc. 1985).”Non v?è dubbio”, scrive lo studioso, “che il disposto costituzionale avrebbe dovuto avere una mera funzione cautelativa, se è vero che l?on. Cobino ebbe a chiarire – replicando all?on. Gronchi – che “noi non diciamo ?lo Stato non potrà mai intervenire a favore degli istituti privati?; diciamo solo che nessun istituto privato potrà sorgere con il diritto di avere aiuti da parte dello Stato”; e che l?on. Codignola ebbe a precisare, allo scopo di evitare ulteriori equivoci, che “con questa aggiunta non è vero che si venga a impedire qualsiasi aiuto dello Stato alle scuole professionali; si stabilisce solo che non esiste un diritto costituzionale a chiedere tale aiuto”. Eppure l?interpretazione ideologica dell?art. 33 venne portata avanti, in fondo con il consenso di tutti. Un destino analogo nello sviluppo dell?ordinamento toccherà al sistema non profit, a favore del quale non venne riconosciuta la valorizzazione civilistica e fiscale che avrebbe contribuito a non disperdere la tradizione di Welfare society. I risultati furono paradossali: solo nel 1997 è stato abrogato l?art. 17 del Codice civile che ancora prevedeva la necessità per le associazioni e le fondazioni dell?autorizzazione per l?accettazione di donazioni e lasciti; eppure si trattava di una disposizione assolutamente inattuale che risaliva al timore della cosiddetta ?manomorta? regolamentata dalle leggi Siccardi nel 1850. E solo nel 1988 è stato dichiarato incostituzionale, dopo cento anni di tranquillo vigore, l?art.1 della legge Crispi sulle Opere pie, nella parte in cui non prevedeva che le Ipab regionali e infraregionali potessero continuare a sussistere assumendo la fisionomia giuridica di istituzioni private. Infine, è da ricordare come, negli anni 70, la riforma tributaria, nella pretesa astratta di garantire condizioni di prelievo uguali per tutti, avesse riaccentrato tutto il sistema, segnando la fine del municipalismo fiscale e penalizzando ulteriormente le realtà precedentemente capaci di generare pubblica utilità anche grazie alle immunità fiscali.

Giorgio Vittadini e Luca Antonini


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