Minori & Giustizia
Gli adolescenti autori di reato? Hanno bisogno di essere visti, non di essere giudicati
Punire è facile. Riparare è giusto. Questa la visione che ha guidato la Fondazione don Calabria capofila del progetto Tra Zenit e Nadir: rotte educative in mare aperto. Un percorso di giustizia riparativa rivolto a oltre 500 ragazzi del circuito penale. Un’esperienza che dimostra come il cambiamento è possibile quando si sceglie di vedere, ascoltare e accompagnare i ragazzi

«Mi ha aiutato a riflettere su quello che ho fatto, su ciò che è sbagliato e su cosa si può fare per migliorare, spingendomi a guardarmi dentro», racconta Matteo. «All’inizio non ne vedevo l’utilità, poi ho capito che il mio modo di pensare stava cambiando, grazie a voi», aggiunge Laura. «Ho parlato, mi sono sfogato, ho detto cose che di solito tengo per me. Questa esperienza mi ha aiutato a riconoscere i miei errori», conclude Giovanni. Queste sono solo alcune delle testimonianze dei ragazzi che hanno partecipato al progetto “Tra Zenit e Nadir: rotte educative in mare aperto”, che ha avuto l’obiettivo di promuovere l’utilizzo di strumenti di giustizia riparativa con i minorenni coinvolti in procedimenti penali.
Il progetto, durato tre anni, è nato nell’ambito del bando “Cambio Rotta”, promosso dall’impresa sociale Con i Bambini. Grazie alla collaborazione tra la Fondazione don Calabria per il sociale, capofila dell’iniziativa, e il Coordinamento nazionale comunità di accoglienza – Cnca, dal 2021 al 2024, Tra Zenit e Nadir ha coinvolto 57 realtà – tra enti pubblici e organizzazioni del terzo settore – attive nelle province di Brescia, Cremona, Milano, Venezia, Verona, Vicenza, Trento e Treviso.
Come spiega Silvio Masin, coordinatore del progetto e responsabile tecnico della Fondazione don Calabria per il sociale, «l’iniziativa non si è limitata a promuovere interventi per i ragazzi del circuito penale, ma ha sollecitato e coinvolto i diversi soggetti della comunità come comuni, scuole o fondazioni con l’obiettivo di costituire delle comunità educanti che favoriscano la prevenzione e la riparazione dei reati e degli atti devianti, che responsabilizzino e sostengano invece di escludere. Ai ragazzi del penale non si fanno sconti, gli si chiede di riconoscere e assumersi la responsabilità del danno che hanno causato alle vittime e alla comunità di cui fanno parte, anche con azioni volte proprio a riparare quanto fatto, di comprendere cosa li ha spinti a rompere quel patto che ci unisce agli altri e alla collettività e a riprogettare la propria vita su nuove basi».
L’obiettivo è costituire delle comunità educanti che favoriscano la prevenzione e la riparazione dei reati e degli atti devianti. Che responsabilizzino e sostengano invece di escludere
Silvio Masin, coordinatore del progetto e responsabile tecnico della Fondazione don Calabria
La giustizia riparativa: uno sguardo nuovo sui ragazzi del circuito penale
Le azioni del progetto si sono basate su strategie operative mirate a ridurre il rischio sociale, puntando sulla responsabilizzazione dei minorenni, il supporto emotivo e sociale, l’integrazione nella comunità, l’educazione, la creazione di reti di sostegno continuative e la riparazione delle relazioni anche attraverso il confronto con le vittime, con l’obiettivo di promuovere consapevolezza, inclusione e prevenire la recidiva.
«Quando abbiamo iniziato a lavorare con i ragazzi, siamo partiti dal presupposto che il reato era solo un “fatto”, uno degli eventi della loro vita, una parentesi tra molte altre esperienze», spiega Chiara Panato, educatrice nel progetto Tra Zenit e Nadir di Verona, «per questo, durante gli incontri mensili non abbiamo affrontato direttamente il tema del reato, che non è stato il punto di partenza, ma il punto d’arrivo di un percorso. Non chiedevamo ai ragazzi “Perché hai fatto quello che hai fatto?”, ma cominciavamo a esplorare aspetti semplici e allo stesso tempo fondamentali come le emozioni, la comunicazione e tutto ciò che spesso ci accorgevamo mancava nel loro vissuto. Così abbiamo costruito gradualmente una relazione con loro. Questo percorso ci ha permesso poi di affrontare insieme, con maggiore consapevolezza e fiducia, le motivazioni profonde che avevano portato al singolo reato».
Non chiedevamo ai ragazzi “Perché hai fatto quello che hai fatto?”, ma esploravamo aspetti semplici e fondamentali come le emozioni, la comunicazione. Così abbiamo costruito una relazione con loro. Questo percorso ci ha permesso poi di affrontare le motivazioni profonde che avevano portato al singolo reato
Chiara Panato, educatrice nel progetto Tra Zenit e Nadir
Tra Zenit e Nadir ha evidenziato come non c’è una sola causa che conduce i ragazzi a commettere un reato. Oggi il disagio giovanile non è più immediatamente collocabile dentro i vecchi paradigmi interpretativi con i quali eravamo soliti spiegare la devianza o il disadattamento giovanile: l’emergenza di sottoculture, la provenienza da nuclei familiari disagiati o il contesto sociale. Adesso a queste cause “classiche” si affiancano nuovi fattori, più difficili da definire, come l’assenza di un progetto di vita, un senso diffuso di noia o vergogna e un vuoto esistenziale. Questo malessere, inoltre, si inserisce in un modello culturale contemporaneo definito da alcuni come “società senza dolore”, in cui il senso di inadeguatezza e vergogna tende a sostituire l’idea tradizionale di colpa.
I numeri di un percorso che ha trasformato i ragazzi
I 536 ragazzi coinvolti provenivano quasi tutti dal circuito penale (oltre il 98%), mentre meno del 2% era stato segnalato dai servizi sociali comunali. Si trattava di minorenni o di giovani che avevano commesso un reato quando erano ancora minorenni. L’80% era nato in Italia, ma solo il 70% possedeva la cittadinanza italiana; il restante 20% proveniva da altri paesi. L’87% dei ragazzi ha subito almeno una bocciatura scolastica e la metà è stata bocciata due volte o più. Più della metà non era inserita in alcun percorso scolastico, mentre circa il 20% frequentava corsi triennali o quadriennali di formazione professionale. Il 43% presentava disturbi psichici, disturbi evolutivi specifici, bisogni educativi speciali o svantaggi di tipo culturale, sociale e linguistico. Inoltre, il 29% aveva dipendenze patologiche, quasi sempre legate all’uso di sostanze. Più della metà dei beneficiari (58%) al momento dell’ingresso nel progetto non era in carico ad alcun servizio specifico. Circa tre quarti di loro erano sottoposti a una misura penale al momento della presa in carico (per il 75% la messa alla prova).
Abbiamo cercato di trasmettere ai ragazzi l’idea che nella vita tutto dipende dalle scelte che facciamo e che ogni scelta comporta delle conseguenze, positive o negative, di cui occorre assumersi la responsabilità
Chiara Panato, educatrice di Tra Zenit e Nadir
«I ragazzi partecipavano a incontri di gruppo settimanali presso la sede della Fondazione don Calabria di Verona», racconta Chiara Panato, «sono stati inseriti in gruppi specifici in base al loro livello di consapevolezza, valutato attraverso colloqui preliminari a cui prendeva parte anche uno psicologo. A questa attività si affiancava un lavoro individuale, fondamentale per costruire un legame educativo con ciascun ragazzo. I laboratori di gruppo erano articolati in moduli tematici e, nel corso dell’anno, abbiamo lavorato su aspetti come l’empatia, la comunicazione assertiva e le scelte di vita. Quest’ultimo modulo è stato particolarmente importante. Abbiamo cercato di trasmettere ai ragazzi l’idea che nella vita tutto dipende dalle scelte che facciamo e che ogni scelta comporta delle conseguenze, positive o negative, di cui occorre assumersi la responsabilità». Panato sottolinea che «l’approccio non è mai stato giudicante. Non ci siamo concentrati su ciò che avevano fatto, ma abbiamo sempre parlato di scelte. Li abbiamo accompagnati nel riconoscere il significato e l’impatto delle proprie azioni, ponendoci come uno specchio, capace di restituire loro consapevolezza, non sentimenti di condanna».

La comunità come risorsa educativa e riparativa
La costruzione di una relazione con la comunità territoriale è stato un altro obiettivo prioritario del progetto. La comunità ha, infatti, un ruolo fondamentale nei percorsi di giustizia riparativa perché è proprio all’interno di essa che si sviluppano i comportamenti dannosi. Allo stesso modo la comunità riveste un ruolo cruciale nei processi che si attivano per riparare o per prevenire nuovi reati. La comunità può offrire al giovane, coinvolto nel circuito penale, l’opportunità di ricostruire una rete di affetti e una nuova mappa di significati, capaci di aiutarlo a superare la solitudine, il senso di colpa e l’inadeguatezza legati all’esperienza del reato e all’emarginazione sociale e relazionale.
«Per questo motivo», racconta Panato, «agli incontri di gruppo sono seguiti moduli che definiamo “del fare”. Li abbiamo progettati con i ragazzi. Erano attività sul territorio. Attività riparative che venivano svolte nella maggior parte dei casi proprio in quei luoghi di Verona che avevano visto i ragazzi protagonisti dei loro reati. Abbiamo sistemato un parco giochi per bambini; partecipato ad attività con gli anziani in un circolo Noi, insegnando loro a usare il telefono; riverniciato murales all’esterno di una parrocchia e collaborato con una squadra di basket inclusivo per aiutare ad allenare i ragazzi».

Un appello alle istituzioni e all’opinione pubblica
Nei suoi tre anni di operatività Tra Zenit e Nadir si è confrontato con due importanti cambiamenti del contesto istituzionale: la riforma Cartabia del 2022 e il decreto Caivano del 2023. La prima ha introdotto ufficialmente la giustizia riparativa nel nostro ordinamento, sebbene la sua piena attuazione resti ancora lontana. Il secondo, invece, ha segnato un ritorno a un approccio più punitivo della pena. Se da un lato la riforma Cartabia ha rafforzato l’impianto del progetto Tra Zenit e Nadir, dall’altro il decreto Caivano si è posto in netto contrasto.
Per riflettere su questi temi e restituire alla comunità i risultati del progetto, il 17 aprile scorso si è tenuto a Verona il convegno: “Solo nel buio si rivelano le stelle. Il paradigma della giustizia riparativa nell’esperienza del progetto Tra Zenit e Nadir: rotte educative in mare aperto“. In quell’occasione, Riccardo Pavan, del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza, ha rivolto un appello alle istituzioni affinché promuovano, nei propri territori, luoghi permanenti di confronto e azione condivisa. Spazi dove non siano coinvolti solo gli operatori del penale minorile, ma l’intera comunità locale, per costruire percorsi realmente adatti alle storie e ai bisogni dei ragazzi. All’opinione pubblica è stato chiesto di superare stereotipi e semplificazioni, scegliendo di guardare alle storie dei giovani inseriti nel circuito penale con occhi diversi, più aperti e consapevoli. Agli operatori, infine, l’invito a lavorare in modo sempre più integrato con le istituzioni e gli altri attori del territorio, mettendo in rete competenze e professionalità diverse. Solo così è possibile costruire percorsi davvero su misura, pensati come abiti sartoriali, per ogni singolo ragazzo.

Verona: l’eredità di Tra Zenit e Nadir? Il Servizio diurno penale
Intanto a Verona, l’esperienza di Tra Zenit e Nadir non si è conclusa con il convegno. Infatti la Fondazione don Calabria ha attivato un Servizio diurno penale. Chiara Panato è la referente del servizio: «Ci permette di incontrare i ragazzi anche più volte a settimana. Lavoriamo in stretta collaborazione con gli assistenti sociali e operiamo come un’équipe multidisciplinare».
Panato ricorda infine che: «dobbiamo sempre pensare che questi ragazzi sono figli della nostra società. Rinnegare ciò che sono significa, in fondo, rinnegare anche una parte di noi stessi. Siamo noi ad aver costruito questa società, ed è nostra responsabilità fare in modo che tutti possano viverci bene, sentendosi accolti. Ignorarli perché vogliamo vedere solo ciò che è bello significa, in un certo senso, fingere che tutto vada bene. Quando i ragazzi non si sentono visti nei loro bisogni, rischiano di compiere gesti sempre più eclatanti per attirare l’attenzione. I ragazzi hanno bisogno di uno sguardo e non di un giudizio».
L’immagine di apertura è un fotogramma del video di presentazione di un’attività al museo che si è svolta a Brescia (Video completo sul canale youtube di Tra Zenit e Nadir)
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