Idee Terzo settore
Lavoro sociale, il “reverse mentoring” come strumento ponte fra generazioni
L’inserimento di giovani professionisti accanto a operatori storici favorisce un continuo scambio di competenze e di visioni, valorizzando sia l’etica professionale maturata nel tempo, sia la capacità innovativa dei nuovi arrivati. Il reverse mentoring, in questo senso, non è solo una trasmissione di competenze, ma un motore di cambiamento nella qualità della vita degli ospiti e nella prevenzione del burnout degli operatori

Le comunità, hanno preso vita verso la fine degli anni 70 del secolo scorso, o meglio hanno iniziato un percorso di strutturazione in quegli anni, raggiungendo un’organizzazione che poneva le basi per i modelli organizzativi di oggi. Un momento storico particolare in cui si respirava un’aria di forte cambiamento e di costruzione di un sistema di welfare che viveva ancora della forte spinta del dopo-guerra e in cui la professionalità dietro la scelta del lavoro d’aiuto si avvicinava molto spesso a scelte di carattere ideale, se non ideologiche. Un percorso che vedeva, spesso una coincidenza tra scelta politica e scelta lavorativa, e in cui, a fronte di scarsa professionalità, il senso di accesso ai diritti per persone vulnerabili e la spinta ideale faceva da elemento di trasformazione. Sono anni in cui si sono raggiunti tanti risultati sia in termini di risposta ai bisogni, ma anche nell’essere elemento di cambiamento di una società. I lavoratori del mondo del non profit erano anche coloro che entravano nelle trasformazioni politiche e nei percorsi di costruzione di norme che racchiudevano la spinta ad una società solidale. Un percorso che a distanza di quarant’anni sembra lontano, il mondo è cambiato, le situazioni a cui rispondere sono molto più complesse, non solo in termini di nuovi bisogni, ma perché il sistema ha cambiato le logiche organizzative, con la crescita della burocrazia, delle professionalità, la ricerca scientifica, le specializzazioni, la disillusione.
I sistemi normativi che regolano l’architettura dei servizi sono spesso modellati su strutture ospedaliere, con logiche a breve termine e orientate alla cura piuttosto che alla progettualità di vita
I sistemi normativi che regolano l’architettura dei servizi sono spesso modellati su strutture ospedaliere, con logiche a breve termine e orientate alla cura piuttosto che alla progettualità di vita. Molti operatori “storici” sono stanchi, spesso distanti dalle logiche attuali, con linguaggi che fanno difficoltà a comprendere, altri rassegnati ad un sistema mondo che avevano immaginato in altro modo, ma, soprattutto, sono quasi tutti in età di pensione. Un momento storico importante per non perdere patrimonio che non è solo operativo, ma molto più ampio, è di storia di vita, di idee, di radici. Nel pensare al reverse mentoring la domanda che mi sono fatto è: «Come facciamo a trasmettere una continuità di storia all’interno di un mondo come quello del Terzo settore, in cui molto è destinato alla gestione, e dove, non si possono perdere storie e vissuti, ma piuttosto riuscire a capire come provare a fare un upgrade di tutto l’esperienza e riuscire a tradurlo e attualizzarlo?».
Oggi, grazie all’evoluzione degli studi scientifici e al mutamento delle prospettive sociali, si afferma una visione progettuale del servizio, inteso come spazio in continua trasformazione. I progetti a termine diventano strumenti dinamici capaci di riattivare legami e stimolare cambiamenti, sia per gli ospiti che per gli operatori. In questo contesto, i nuovi professionisti, formati all’università con una visione più orientata agli obiettivi, alla raccolta dati e alla costruzione di indicatori, giocano un ruolo cruciale, introducendo metodologie innovative. L’inserimento di giovani professionisti accanto a operatori storici favorisce un continuo scambio di competenze e di visioni, valorizzando sia l’etica professionale maturata nel tempo, sia la capacità innovativa dei nuovi arrivati. Il reverse mentoring, in questo senso, non è solo una trasmissione di competenze, ma un motore di cambiamento nella qualità della vita degli ospiti e nella prevenzione del burnout degli operatori. Il concetto di reverse mentoring, nato in ambito organizzativo per facilitare lo scambio di competenze tecnologiche tra giovani e senior, va riletto e riadattato in chiave relazionale, generativa e comunitaria. Diversamente dal mentoring tradizionale, in cui l’esperienza e la seniority guidano il processo formativo, il reverse mentoring si configura come una relazione orizzontale e bidirezionale, dove anche i più giovani o i meno esperti hanno qualcosa di prezioso da offrire: non solo competenze tecniche, ma soprattutto nuovi sguardi sul lavoro d’aiuto, sensibilità generazionali, attitudini relazionali, approcci critici e capacità di leggere il presente attraverso altri codici.
Il concetto di reverse mentoring, nato in ambito organizzativo per facilitare lo scambio di competenze tecnologiche tra giovani e senior, va riletto e riadattato in chiave relazionale, generativa e comunitaria
Ho provato ad immaginare alcuni capisaldi su cui muoversi e in cui l’apporto dei nuovi professionisti assumono un ruolo centrale per ripensare un sistema di servizi in continuità con le radici. Il primo è il tessuto territoriale, di fatti i servizi comunitari sono parte integrante del territorio e promuovono inclusione, partecipazione e sviluppo della socialità. Essi si inseriscono in una rete ampia di interlocutori istituzionali (servizi sociali, scuole, uffici per l’inserimento lavorativo, etc.) e informali (attività culturali e sportive). La complessità di queste relazioni richiede una grande capacità di interazione da parte dei professionisti coinvolti.
In questo scenario, i nuovi operatori, digitalmente alfabetizzati e capaci di esplorare opportunità territoriali anche attraverso strumenti innovativi come i social media, risultano più efficaci nella costruzione di reti. Al contrario, gli operatori più esperti possono manifestare una certa diffidenza verso la crescente istituzionalizzazione e digitalizzazione dei processi, talvolta percepita come un’intromissione nella dimensione umana del lavoro.
Il reverse mentoring facilita l’incontro tra queste due visioni: da un lato, la competenza digitale e relazionale dei giovani operatori; dall’altro, la contestualizzazione storica e il legame con i valori fondanti del servizio. Questo scambio è alla base della trasformazione del servizio da spazio chiuso a realtà dinamica, capace di interagire con il territorio e di rispondere in modo innovativo alle sfide della contemporaneità. La seconda dimensione è quella della natura multidisciplinare che impone un confronto continuo tra professionisti con formazioni, esperienze e linguaggi diversi. Le differenze generazionali e formative (tra chi ha conseguito titoli attraverso normative transitorie e chi ha seguito percorsi universitari completi) si sommano a quelle tra ambiti disciplinari (sanitario, sociale, educativo, culturale).
Questa eterogeneità, se ben gestita, può diventare una risorsa. I nuovi operatori portano con sé una visione sistemica e strumenti aggiornati, ma rischiano di restare “compartimentati” in attesa dell’azione di altri. I professionisti esperti, invece, hanno spesso sviluppato capacità trasversali, assumendosi responsabilità oltre il proprio ruolo, in risposta alle carenze organizzative. Il reverse mentoring permette di integrare queste due dimensioni, favorendo una reale sinergia di équipe. Superando il rischio di “taylorismo sociale” (lavoro rigidamente suddiviso e minutato), promuove una logica collaborativa orientata alla qualità della vita degli ospiti. Questo scambio non è solo tecnico, ma profondamente umano e relazionale, e costituisce il cuore di un nuovo modello organizzativo basato sulla valorizzazione delle competenze individuali all’interno di un progetto comune.
Esiste poi tutto il tema della partecipazione sia in termini di appartenenza e identità, ma anche nel concetto di attivazione nella società civile. Un concetto centrale proprio del mondo del Terzo settore, legato alla storia di legame con una politica partitica forte di anni ormai lontani. Il tema della partecipazione rappresenta oggi una delle sfide più rilevanti per gli Enti del Terzo Settore (Ets). Il lavoro di cura è spesso sottovalutato, poco retribuito, e reso ancora più frustrante dalla mancanza di prospettive di carriera e dalla trasformazione dei servizi in sistemi prestazionali orientati al mercato.
Questa crisi di senso si riflette in due atteggiamenti opposti: da un lato, operatori storici demotivati e disillusi; dall’altro, giovani professionisti sfiduciati e disorientati di fronte a un sistema che non riconosce pienamente il loro percorso formativo.

Il reverse mentoring offre una risposta concreta a questa crisi, contribuendo alla costruzione di un’identità organizzativa forte e condivisa. Valorizzando le professionalità interne e investendo nella comunità degli operatori, gli Ets possono riattivare la motivazione e l’appartenenza. Coinvolgere i giovani in ruoli chiave, all’interno di équipe multidisciplinari fondate sulla co-progettazione e sul confronto tra livelli educativi e sanitari, consente di superare le logiche gerarchiche e restituire senso al lavoro di cura.
Questo cambiamento non riguarda solo il servizio, ma si estende all’intero ente, che torna a essere soggetto attivo nella costruzione di politiche sociali partecipate. Il reverse mentoring, quindi, diventa una leva fondamentale per rilanciare il ruolo degli Ets nella società contemporanea, non meri erogatori di prestazioni, ma promotori di visioni alternative all’individualismo e alla precarietà, basate sulla relazione, sulla partecipazione e sulla dignità del lavoro. Nel contesto dei servizi di comunità, dove la complessità delle situazioni richiede una continua negoziazione tra attori diversi, questa pratica si rivela particolarmente significativa. I servizi non possono più essere pensati come contenitori rigidi di prestazioni, ma come spazi porosi e in divenire, dove il valore professionale emerge dalla capacità di costruire relazioni significative e dall’attitudine a co-progettare interventi radicati nel territorio. Da qui l’importanza di attivare dispositivi che non solo favoriscano il dialogo intergenerazionale, ma che mettano in discussione le gerarchie consolidate nei gruppi di lavoro, valorizzando i vissuti, le intuizioni e le letture dei più giovani, non come risorse da indirizzare ma come interlocutori attivi e capaci di orientare il cambiamento. In questa prospettiva, il reverse mentoring si configura come una pratica che agisce sul piano della ridefinizione dell’identità professionale, trasformando l’esperienza in uno spazio di riflessività condivisa, e aprendo alla possibilità di una leadership diffusa, distribuita, capace di ascolto e co-responsabilità. Nell’immaginario di applicazione del reverse mentoring negli Ets il suo ruolo non si esaurisce in una dinamica relazionale tra individui, ma ha implicazioni organizzative e culturali più ampie: chiama in causa il modo in cui i servizi sono progettati, le modalità con cui si costruisce il lavoro in équipe, la capacità di leggere i territori in cui si opera, il valore attribuito alla partecipazione e all’ascolto delle comunità locali.
Qualche settimana fa è stato pubblicato il libro “RM by Education. Il Reverse Mentoring come strategia educativa e collaborativa” a cura di Agnese Rosati edito da Morlacchi Editore U.P. Riccardo Sollini, l’autore di questo articolo, ha curato un capitolo sul tema del reverse mentoring e Terzo settore.
Foto. Cnca/Archivio VITA
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