Diritti

Verso il referendum: quali dati contano quando si parla di cittadinanza?

Per la Lega il quesito referendario sulla cittadinanza è inutile perché l'Italia concede già tantissime cittadinanze. Ma bisogna guardare dentro quelle pratiche: «I numeri vanno spacchettati, solo così danno una lettura approfondita», spiega Giorgia Papavero di Fondazione Ismu. A conti fatti il «pericolo invasione» non è affatto dietro l'angolo

di Francesco Crippa

Per Matteo Salvini, segretario della Lega e vicepresidente del Consiglio nonché ministro dei Trasporti, il referendum sulla cittadinanza è «pericoloso» perché estenderebbe lo status di italiano a «centinaia di migliaia di persone in maniera indiscriminata». Tralasciando il dibattito sull’aggettivo «pericoloso», quello che dice Salvini è vero? La risposta è no. «Per ottenere la cittadinanza ci sono altri requisiti oltre a quello temporale e quelli rimangano tutti: non è che uno arriva e gli si dà subito la cittadinanza», spiega a VITA Giorgia Papavero, ricercatrice della Fondazione Ismu Ets.

Il weekend referendario dell’8 e 9 giugno si avvicina. Si vota su quattro quesiti sul lavoro e uno sulla cittadinanza. Secondo un sondaggio condotto tra il 21 e il 22 maggio da YouTrend per HuffPost, andrà a votare meno di un italiano su tre (32%). Obiettivo dell’ultimo quesito è dimezzare i tempi necessari per ottenere la cittadinanza per gli stranieri residenti in Italia: da dieci si passerebbe a cinque anni. Una proposta osteggiata da Fratelli d’Italia e Lega, con il Carroccio in prima linea a gridare all’inutilità della norma perché saremmo già il Paese europeo che concede più cittadinanze all’anno. Fermo restando che anche questo non è vero, perché siamo secondi dopo la Spagna, una riflessione sui numeri può essere utile per rendersi meglio conto della complessità dietro questo fenomeno. Chi ha cercato di farla è proprio Papavero, che terrà oggi un intervento su “Ma quali sono i dati che contano?” al webinar organizzato da Fondazione Ismu intorno al quesito referendario.  

Si parte da un’osservazione tecnica: né il numero di acquisizioni di cittadinanza dello scorso anno, né la sua curva pluriennale sono dati esaustivi. È vero, il 2024 è stato il terzo anno di fila in cui le persone con background migratorio che sono diventate italiane sono state più di 200mila, raggiungendo esattamente la cifra di 217.117, un record. «Si tratta, però, di dati aggregati che vanno spacchettati, bisogna andare a capire cosa c’è dietro», spiega la ricercatrice. 

La vera domanda da porsi, più che quante sono state, è su come siano avvenute le acquisizioni. Si scopre, così, che solo il 39,5% di queste persone ha ottenuto la cittadinanza per residenza o naturalizzazione, cioè trascorsi i 10 anni di residenza legale continuativa (che diventano cinque per i rifugiati e apolidi e quattro per i comunitari).

Delle rimanenti, il 12% ha acquisito la cittadinanza grazie al matrimonio con un italiano, mentre il restante 48,5% attraverso uno di questi tre canali: per ius sanguinis, cioè perché figli o discendenti di cittadini italiani, per trasmissione del diritto ai figli minori da parte di genitori divenuti italiani, per scelta dei neo-maggiorenni nati e residenti in Italia che diventano italiani al compimento del 18° anno di età. Non a caso, infatti, quasi una nuova acquisizione su due (48%) è avvenuta ai 18 anni o per trasmissione del diritto.

Si tratta di puntualizzazioni importanti. «Il terzo Paese di provenienza delle cittadinanze concesse è l’Argentina (16.076, ndr), dove c’è stato un fortissimo ricorso alla norma sulla discendenza. Le prime due, invece, sono Albania e Marocco (31.728 e 27.901): sono comunità molto radicate, quindi è probabile che la maggior parte delle acquisizioni riguardi cittadini nati qui che a 18 anni hanno ottenuto la cittadinanza italiana perché la loro famiglia è qui da tempo, oppure si tratta di bambini che l’hanno presa insieme ai genitori».

È bene sottolineare che i genitori di una persona nata e cresciuta in Italia che ha compiuto 18 anni nel 2024 potrebbero non aver ancora ottenuto la cittadinanza, per due motivi. Il primo riguarda i tempi burocratici: dopo 10 anni di residenza legale si può fare domanda, ma l’iter può protrarsi a lungo. Il secondo riguarda il fatto che per ottenere la cittadinanza per residenza non basta vivere qui da almeno 10 anni, ma bisogna anche avere un’adeguata conoscenza della lingua, una determinata capacità reddituale e l’assenza di condanne penali. I famosi «requisiti che rimangono» di cui sopra, in virtù dei quali non bisogna attendersi un’estensione della cittadinanza a «centinaia di migliaia di persone in maniera indiscriminata» come canta Salvini.

«Considerando i dati spacchettati possiamo dare una lettura più approfondita del fenomeno», commenta Papavero. «Sicuramente la riduzione del tempo da dieci a cinque anni per chi ottiene la cittadinanza per residenza determinerà un aumento di acquisizioni, perché bisogna considerare anche i figli di chi ne beneficia. Al tempo stesso, però, ci potrebbero essere altri numeri che si sgonfiano: è stato approvato un decreto legge che prevede che la discendenza italiana per chi nasce all’estero vale fino alla seconda generazione, quindi le acquisizioni tramite questo canale potrebbero diminuire». Insomma, inutile fare allarmismo: «Non è che dopodomani ci saranno due milioni di nuovi italiani», sottolinea Papavero. «In ogni caso, fare delle stime è molto difficile, perché le variabili che concorrono all’ottenimento della cittadinanza sono tante, alcune personali e quindi difficilmente quantificabili».

In apertura: Presidio di protesta per il silenzio sul referendum sulla cittadinanza davanti alla sede Rai di Via Teulada, Roma promosso dalla Cgil il 29 Aprile 2025 (foto di Cecilia Fabiano/LaPresse) 

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