Attivismo ambientale

L’ecoansia? Diventi impegno politico

Angoscia, tristezza, dubbi: le notizie sul disastro ecologico suscitano sentimenti negativi, soprattutto tra gli ambientalisti, che ogni giorno si occupano di questi temi. Per lo psicosociologo francese Jean Le Goff l'ecoansia va vissuta e condivisa, per alimentare pensiero e azione. A lungo, invece, i movimenti ecologisti l'hanno ignorata, offrendo una narrazione solo positiva della trasformazione ecologica. Ma i sentimenti vanno ascoltati, sono la lente con cui guardiamo il mondo

di Elisa Cozzarini

«Politicizzare l’ecoansia significa rendere ciò che proviamo un oggetto condiviso, affermare che i nostri sentimenti sono legittimi e preziosi, perché alimentano la riflessione e l’azione», con queste parole lo psicosociologo francese Jean Le Goff riassume il messaggio del suo libro, intitolato proprio Politiser l’éco-anxiété, appena uscito per la casa editrice indipendente con base a Bordeaux Les Éditions du Détour. Il suo è un racconto di storie individuali di attivisti per l’ambiente che, ciascuno a suo modo, affronta e interpreta l’angoscia verso i problemi ambientali.

Lei ricorda che l’ecoansia non è un sentimento nuovo. Ma se ne parla solo da qualche anno, soprattutto in riferimento a ciò che provano i giovani di fronte alla crisi climatica. Perché allora analizzarla solo attraverso le esperienze individuali degli attivisti? Non sono solo loro a vivere questa condizione…

Gli attivisti si trovano però in una posizione particolare rispetto all’ecoansia. Essere militanti, ma anche occuparsi per lavoro o per studio delle questioni ecologiche, implica confrontarsi regolarmente con informazioni sul disastro ecologico in corso. Gli attivisti, in qualche modo, si privano della protezione più efficace contro l’ecoansia: rivolgere altrove l’attenzione, minimizzare la gravità della situazione o lasciare ad altri la responsabilità di fare qualcosa. Ma d’altra parte, il fatto di sentirsi partecipi di un’azione costruttiva, di trovarsi con altre persone che si preoccupano della sorte del mondo, dà la forza per affrontare sentimenti dolorosi. Approfondendo le storie di attiviste e attivisti, la mia intenzione è di trasmettere esperienze che ci spingano ad affrontare i problemi ecologici come collettività. Senza idealizzare l’attivismo, che non è la soluzione per risolvere in modo definitivo la questione dell’ecoansia.

Se non si riescono a esprimere anche le fragilità, le angosce, la tristezza, lo scoraggiamento, i dubbi, non si approfondiscono neanche le relazioni e non si affrontano in modo collettivo questi sentimenti.

Jean Le Goff, psicosociologo

Perché è importante parlare di questo sentimento? E perché politicizzarlo?

Ho iniziato la mia ricerca nel 2013, quando non se ne parlava ancora. Avevo appena terminato un master sull’ecologia e cominciavo a militare nel movimento per il clima. In quel momento si diceva che la mobilitazione doveva essere fatta assolutamente in “positivo”, senza spaventare troppo o scoraggiare le persone. Non si parlava molto di ciò che di negativo provavamo. Gli stessi attivisti cercavano di incarnare quei risvolti positivi su cui speravano di mobilitare anche gli altri. Questo poteva dar luogo a un’atmosfera poco incline alla cura e alla relazione: ciascuno era attraversato da sentimenti che viveva in modo individuale, senza parlarne. È importante condividere qualcosa di positivo. Ma se non si riescono a esprimere anche le fragilità, le angosce, la tristezza, lo scoraggiamento, i dubbi, non si approfondiscono neanche le relazioni e non si affrontano in modo collettivo questi sentimenti. La sociologa americana Arlie Hochschild definisce l’emozione come un senso, come la vista o l’udito: un senso che ci informa del nostro punto di vista sul mondo. Ecco perché politicizzare l’ecoansia, farne un oggetto condiviso per alimentare riflessione e azione.

Lo psicosociologo francese Jean Le Goff

Nel suo libro, lei torna al momento in cui, per la delusione seguita alla Cop15 per il clima di Copenhagen, il movimento ecologista ha perso slancio e ottimismo. Oggi stiamo vivendo qualcosa di simile? Dopo l’entusiasmo delle manifestazioni di piazza trainate dai Fridays for future e Greta Thunberg tra il 2018 e il 2019, c’è un nuovo crollo delle speranze ecologiste?

La storia del movimento ecologista è fatta di slanci e momenti di scoraggiamento. Nel 2009 tutti parlavano della Cop15. La mobilitazione della società civile è stata enorme. Tutti i capi di governo erano a Copenhagen. C’erano grandi aspettative che i negoziati internazionali finalmente fossero all’altezza della crisi climatica. L’errore è stato proprio riporre tutte le speranze su quella conferenza. Se ne parlava come “l’ultima possibilità”, come se in caso di fallimento non ci sarebbe potuta essere altra soluzione. I negoziati non si sono conclusi con un accordo vincolante e una enorme delusione si è abbattuta sul movimento per il clima. Ci sono voluti diversi anni per ricominciare a vedere mobilitazioni di piazza sulla questione climatica. Oggi viviamo l’impressionante crescita dell’estrema destra in molti Paesi, con attacchi ai movimenti ecologisti, ai migranti, ai diritti delle persone Lgbt… Ci sono davvero molti motivi per sentirsi sbalorditi e demoralizzati. Non credo che la questione principale sia come gestire la nostra ecoansia. Ma piuttosto: come possiamo farci influenzare, insieme, da quel che sta accadendo? Come farne un’occasione di ritrovarsi, di pensare e agire insieme?

Lei dedica spazio al tema del conflitto: perché? Come può contribuire al dialogo tra gli attivisti e il resto della società?

Le trasformazioni ecologiche toccano interessi molto potenti. Sarebbe difficile immaginare una società che reagisca senza conflitto e senza mettere in gioco rapporti di forza. Pensare il conflitto è indispensabile, non si tratta necessariamente di guerra o di violenza, ma di interessi contrapposti. Eppure, a volte gli ecologisti ritengono che basti raggiungere una “massa critica” di persone sensibili, che vivono nel rispetto dell’ambiente, perché la società nel suo complesso adotti un nuovo sistema ecologico. Si tratterebbe di raggiungere una quota tale per cui poi non sarebbe possibile tornare indietro: si parla di tipping point, in inglese. All’origine c’è l’idea di un professore americano di scienze politiche, Morton Grodzins, che descriveva le dinamiche di segregazione geografica tra neri e bianchi negli Stati uniti negli anni Cinquanta, quando le popolazioni nere migravano verso le città del Nord. Oltre un certo limite, l’arrivo di queste persone portava all’abbandono dei centri urbani da parte dei bianchi, accelerando ulteriormente l’arrivo dei neri. Penso che adottare lo stesso schema per la trasformazione ecologica della società, però, non funzioni. Nella mia ricerca, ho notato che viene piuttosto utilizzato come protezione contro l’angoscia legata al conflitto, un modo per non affrontarlo.

Quale ruolo possono giocare gli attivisti ambientali nella società? Lei fa alcuni esempi in cui sembrano far sentire in colpa gli altri per comportamenti non rispettosi dell’ambiente…

Ci sono modi diversi di essere ecologisti. Alcuni sono molto focalizzati sui cambiamenti individuali dello stile di vita, si appellano alla responsabilità personale e possono suscitare negli altri sensi di colpa. Ma oggi questo orientamento è messo in discussione all’interno dei movimenti ecologisti, perché ci si rende conto che gli individui fanno parte di sistemi. Sono questi a condizionare la capacità di vivere nel rispetto dell’ambiente o meno. Nonostante ciò, resta diffusa l’immagine dell’ecologista “colpevolizzatore”. Secondo la psicoanalista inglese Rosemary Randall, ciò accade perché l’intera società proietta sugli ambientalisti la propria coscienza ecologica. In questo modo, si libera del problema. Se sei identificato come ecologista, in famiglia, tra amici o colleghi, conosci bene la dinamica: succede che le persone si giustifichino per aver preso l’aereo o per aver mangiato carne, anche se non hai detto una parola! In realtà, quelle persone stanno trattando con la propria coscienza ecologica, proiettata sull’altro, l’ecologista.

In apertura foto di Markus Spiske su Unsplash

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