Oncologia

Attività fisica “meglio di un farmaco”. Riduce il rischio di recidive dopo il trattamento

Si abbassa di un terzo il rischio di ritorno del cancro e aumenta la sopravvivenza. Lo mostra il primo studio randomizzato sui benefici dell'attività fisica in aggiunta ai trattamenti standard per il tumore colon-retto. Per Massimo Di Maio: «Uno studio practice changing, una dimostrazione potente di come sia importante investire anche in interventi non farmacologici per i loro effetti sull’outcome terapeutico»

di Nicla Panciera

Photo by Lucas van Oort on Unsplash

Lo studio ha attirato l’attenzione del mondo e non solo perché è stato presentato al più grande congresso internazionale di oncologia medica, l’Asco di Chicago. Ma perché è la conferma dell’eccezionale potenza dell’attività fisica non solo in chiave preventiva ma anche prognostica in caso di malattia oncologica. L’attività fisica può ridurre di un terzo il rischio di morte dei pazienti oncologici e riduce il rischio di recidiva del tumore o di un nuovo cancro. Sono questi i risultati di un programma della durata di tre anni di esercizio fisico strutturato, iniziato appena dopo la chemioterapia adiuvante per il cancro al colon, che ha portato una sopravvivenza libera da malattia significativamente più lunga e risultati coerenti con una sopravvivenza complessiva più lunga. Il follow up è di 10 anni. Dopo 5 anni, il rischio di recidiva o di nuovi tumori è ridotto del 28% e dopo otto anni il rischio di morte è ridotto del 37% in chi ha seguito il programma di attività fisica rispetto al braccio di controllo che ha ricevuto solo delle informazioni sui benefici di un certo stile di vita. «Una dimostrazione potente di come sia importante investire anche in interventi non farmacologici per i loro effetti sull’outcome terapeutico» spiega Massimo di Maio, direttore dell’Oncologia Medica Città della Salute e della Scienza di Torino, professore di Oncologia Medica presso il Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino e presidente dell’Associazione italiana di oncologia medica Aiom.

Il primo studio randomizzato

La sessione ad Asco in cui è stato presentato il lavoro, pubblicato sul New England Journal of Medicine, era intitolata As Good as a Drug ma sono stati in molti a commentare che, visti i risultati dello studio, titolo più accurato sarebbe stato Better than drugs. «La dimensione del beneficio ottenuto con il programma di esercizio fisico, un intervento aggiunto e non in alternativa all’attuale standard terapeutico, ci ha sorpreso» ci dice Massimo di Maio di Aiom. «Lo studio avrebbe meritato una sessione plenaria, il mio plauso agli autori per aver disegnato un tale studio, il primo studio clinico randomizzato sull’efficacia dello sport sulla quale avevamo finora tante evidenze ma tutte provenienti da studi osservazionali». Secondo uno dei due responsabili del lavoro, Kerry Courneya dell’Università di Alberta, «l’esercizio fisico non è più solo un intervento sulla qualità della vita: è un trattamento per il cancro al colon».

L’esercizio fisico non è più solo un intervento sulla qualità della vita: è un trattamento per il cancro al colon

Kerry Courneya

Cambierà la pratica clinica?

I pazienti con cancro del colon in stadio III e stadio II ad alto rischio vengono solitamente sottoposti a intervento chirurgico per rimuovere i tumori, seguito da chemioterapia per distruggere le cellule tumorali rimanenti. Ciononostante, il cancro del colon recidiva in circa il 30% dei casi. Lo studio fornisce un’evidenza della misura della riduzione del rischio di progressione metastatica o di secondo tumore ottenibile con l’attività fisica. «Uno studio epocale che potrebbe essere practice changing, come si dice tecnicamente, e cambiare le linee guida» conferma Di Maio.

Risultati “da approvazione”

La ricerca ha coinvolto oltre 800 pazienti divisi tra coloro che hanno seguito un programma di esercizio strutturato e coloro che invece hanno solo ricevuto materiale educativo sulla salute: nel primo caso, la sopravvivenza senza malattia a 8 anni è maggiore del 7%.  La sopravvivenza a 5 anni senza malattia era dell’80,3% nel gruppo di esercizio e del 73,9% nel gruppo di educazione sanitaria, quindi con una differenza di 6,4 punti percentuali. Per quanto riguarda invece la sopravvivenza globale a 8 anni, essa era del 90,3% nel gruppo di esercizio e dell’83,2% nel gruppo di educazione sanitaria: una differenza quindi del 7,1%. Si tratta della stessa entità di benefici di molti farmaci approvati dalle agenzie regolatorie. «Se fossero quelle di un farmaco, le curve di sopravvivenza e di sopravvivenza libera da malattia ci spingerebbero a volerlo usare immediatamente» commenta Di Maio, che aggiunge: «Un’intervento strutturato di attività fisica costa molto meno dei costosi farmaci oncologici innovativi e non ha la stessa tossicità».

Non solo colon

Il risparmio riguarda anche il trattamento (evitato) non solo delle metastasi ma anche dei nuovi casi scongiurati. «Il miglioramento della sopravvivenza libera da malattia dovuto all’esercizio fisico è stato determinato principalmente dalla riduzione delle recidive epatiche e dei nuovi tumori primari, in particolare tumori al seno, alla prostata e al colon-retto» si legge nello studio. Questi dati suggeriscono che i potenti benefici dell’attività sportiva siano estendibili ad altri tumori, come il seno o la prostata, spiega l’oncologo, «coerentemente con le nostre conoscenze dei meccanismi che mediano i benefici effetti dell’attività fisica, che intervengono a più livelli, agendo sul sistema immunitario, riducendo l’infiammazione e in molti altri modi».

Informare non basta

L’attività fisica, di tipo aerobico svolta su tapis roulant o bike con la supervisione di un personale trainer, veniva svolta in più fasi, con un aumento progressivo del carico di lavoro in tre fasi (le prime due di sei mesi e una fase di due anni), con l’obiettivo di arrivare entro i primi sei mesi a 150 minuti di camminata veloce o 75 minuti di corsa, per poi eventualmente aumentarla senza mai superare il limite di 450 minuti di intensità moderata o di 225 intensa. «Per stessa ammissione degli autori, i tempi dello studio sono stati lunghi (complessivamente su un periodo di 18 anni). Infatti, l’attività fisica non è come un trattamento farmacologico, ma richiede un impegno costante e ripetuto da parte della persona. Questo significa che, oltre a riorganizzazione dei servizi del sistema sanitario, è importante convincere le persone a un cambiamento radicale del proprio stile di vita» spiega Di Maio, che sottolinea come questo studio abbia dimostrato un’altra cosa molto importante: le campagne di comunicazione non bastano. «Il braccio di controllo dello studio era composto da persone cui venivano fornite informazioni sugli stili di vita e la necessità di non essere sedentari. Limitarsi a questo non basta. Bisogna passare a un altro livello e puntare a significativo miglioramento della propria attività fisica».

Il gruppo di controllo aveva ricevuto materiale educativo. Ciò mostra che limitarsi a informare sui danni della sedentarietà non basta. Bisogna puntare a un significativo miglioramento della propria attività fisica

Massimo Di Maio

Studio indipendente non profit

Non da ultimo, i finanziamenti: lo studio, che ha coinvolto 55 centri in vari paesi, è stato finanziato dall’Australian National Health and Medical Research Council e da due charity, la britannica Cancer Research UK e la canadese Canadian Cancer Society. Uno lavoro indipendente e non profit, il tema dell’attività fisica non attirando l’interesse delle aziende farmaceutiche perché non finalizzato alla messa in commercio di un farmaco. «Durante la sua presentazione dei risultati ad Asco, nelle disclosure dei propri eventuali conflitti di intesse» scherza di Di Maio, «il canadese Christopher M. Booth ha dichiarato di non aver collegamenti con l’industria del fitness». Forse, dopo risultati di simile magnitudo, la spinta a finanziare gli studi non profit sarà maggiore.

Foto di Lucas van Oort su Unsplash

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