Giustizia

Il legale del Garante dei detenuti: «Mi sono dimesso e vi spiego perché»

Michele Passione, avvocato del Foro di Firenze, ha lasciato dopo 10 anni l’incarico di legale dell’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. «Il Garante non riferisce in Parlamento, non fa visite nelle carceri come andrebbero fatte, non è andato nel Cpr in Albania, non mostra di essere sempre super partes. Lasciare era inevitabile»

di Ilaria Dioguardi

Avvocato del Foro di Firenze, penalista tra i più noti nel campo del garantismo, Michele Passione ha rassegnato le dimissioni dal ruolo di legale dell’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale dopo 10 anni di incarico. Passione, con un’esperienza trentennale nel mondo penitenziario, ha assicurato la presenza del Garante nel maggiore numero di procedimenti riguardanti i riferiti episodi di maltrattamenti o torture da parte delle forze di polizia nei luoghi di detenzione o custodia, nei processi per i fatti di Santa Maria Capua Vetere, San Gimignano, Firenze-Sollicciano, Reggio Emilia, Verona, solo per citarne alcuni. «La mia decisione, ad un certo punto, mi è sembrata inevitabile. Non potevo dare più nulla».

Perché lasciare l’incarico le è sembrato inevitabile?

Mi è sembrato che dovessi essere io a dover fare un passo indietro nel momento in cui ravvisavo delle mancanze, delle lacune più volte segnalate. C’erano delle grandi differenze tra il mio modo di interpretare il ruolo legale del Garante nazionale all’interno delle aule di giustizia, e l’Ufficio del Garante. L’istituzione che lascio mi sembra navighi in cattive acque.

Ci spieghi meglio.

Difendendo un’istituzione di garanzia, che ha alla base principi quali quelli della tutela dell’habeas corpus e quello della verifica della costante limitazione legale della libertà personale, in qualunque forma si estrinsechi, questo deve accadere e si deve sviluppare secondo delle coordinate che sono scolpite nelle varie fonti che disciplinano la ragion d’essere dei Garanti nazionali. Non ho ricevuto particolare assistenza quando si è trattato di ricevere informazioni, di avere documenti che pure mi erano dovuti, essendo io il legale di quella istituzione. Per esempio, mi è capitato di sentirmi dire che un documento non poteva essermi messo a disposizione, che avrei dovuto chiederlo al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – Dap. Trovo francamente surreale che il Garante, alla mia richiesta di un atto in suo possesso, mi risponda con una pec di rivolgermi al Dap, l’ho trovato un pessimo segnale di inizio del nuovo collegio, con il quale ho collaborato finché ho potuto, anche quando lo presiedeva Maurizio D’Ettore, dal quale avevo ricevuto incoraggiamenti a continuare la mia attività. Ma il problema non sono io.

Qual è il problema?

Il problema è che il Garante non ha fatto la Relazione al Parlamento, che invece è prevista dalla legge. Ma per raccontare, bisogna andare nei posti e predisporsi all’ascolto di chi quelle cose le può raccontare, è quello sguardo che devi incrociare. Io penso che guardare l’altro ti aiuti a cambiare te stesso. Se tu l’altro non lo guardi, non riesci a cambiare il tuo punto di vista, hai bisogno della restituzione del punto di vista dell’altro. E se quell’altro è un migrante bisognoso, è un detenuto al 41bis o è un amministratore pubblico non importa. Nel momento in cui una persona perde la libertà, per qualunque ragione la perda, è un essere umano che ha bisogno di qualcuno. Credo che non tener conto di tutto questo, esiga una scelta: non si può stare a metà.

Un altro problema del Garante è che non va nei luoghi di detenzione, qualunque essi siano, dalle carceri per adulti a quelle minorili, dalle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza – Rems ai Servizi psichiatrici di diagnosi e cura – Spdc, dagli hub aeroportuali ai Centri di permanenza per i rimpatri – Cpr. Non si è andati a verificare la situazione del Cpr in Albania.

A giudicare dal sito del Garante, di visite nelle carceri ne vengono effettuate molte.

Nelle visite che vengono reclamate come svolte, io ravviso un tratto diverso da come penso che si dovrebbero fare. A delle visite ho partecipato perché, oltre a fare l’avvocato del Garante, ero parte (mi sono ovviamente dimesso anche da quello), di un collegio degli esperti composto da varie figure professionali, da medici a psicologi a giuristi. Perché se visiti un Cpr, è bene che ci sia qualcuno che si intende di immigrazione. Se visiti un Spdc, è bene che ci sia qualcuno che si intende di salute mentale. Noi quelle visite le abbiamo fatte, senza preavviso, entrando alle nove del mattino e uscendo anche a mezzanotte, se era il caso.

Il Garante non ha fatto la Relazione al Parlamento, che è prevista dalla legge. Non va nei luoghi di detenzione, qualunque essi siano, dalle carceri per adulti a quelle minorili, dalle Rems ai Servizi psichiatrici di diagnosi e cura, dagli hub aeroportuali ai Cpr

Per approfondire ci vuole tempo. Se ci si vanta di aver visitato (dico numeri a caso, ma non credo troppo distanti dalla realtà), 57 luoghi di privazione della libertà personale in pochi mesi, è una questione di “fisica“: non puoi fare visite approfondite. Andare a fare una visita non vuol dire incontrare il comandante, il direttore responsabile dell’Area educativa e, se parliamo di un carcere, visitare una sezione.

Cosa vuol dire fare una visita approfondita, in un carcere o in un altro istituto?

Vuol dire, ad esempio, accedere ai registri, alle carte che ti danno la fotografia del carcere e sincerarsi che le cose vadano come devono andare. Non si tratta di visite per “fare la pelle” a qualcuno, si fanno a prescindere dalla notizia di reato. Anche perché, quando c’è la notizia di reato, ovviamente anche il Garante ha delle limitazioni nella possibilità di acquisire documentazione che è acquisita dalla Procura della Repubblica. Si fanno con l’auspicio che le cose vadano bene e, se le cose non vanno bene, il Garante invita quell’agenzia che ha ritenuto non conforme alle regole a migliorare sulla base dei rilievi che le vengono trasmessi. Se poi non c’è adeguamento, allora il Garante pubblica una relazione. Funziona così.

Michele Passione

Se so che una persona viene a cena a casa mia, non metto la tovaglia macchiata, probabilmente metto la tovaglia migliore che ho. Così accade se ci si annuncia. Non faccio illazione che qualcuno apparecchi la tavola in modo artefatto, ma se la visita viene annunciata prima, si vede quello che viene “apparecchiato”, ma l’intento è andare a vedere se c’è una “macchia”, e se la cerchi bene la trovi, purtroppo. Però bisogna avere il tempo, la voglia di studiare, anche scrivere una relazione è impegnativo. Aggiungo un’altra cosa che a me è sembrata francamente nociva per il Garante.

Quale?

Il Garante è un’alta autorità di garanzia composta da un collegio (un presidente e due membri, ora Riccardo Turrini Vita, Irma Conti e Mario Serio, ndr). Turrini Vita in numerose occasioni istituzionali ha sempre rivendicato la collegialità dell’istituzione. Il che, secondo me è positivo, è un’espressione di democraticità. Il problema è se poi, invece della collegialità, vedi le “voci fuori dal coro”.

A cosa si riferisce?

Mi ha molto sorpreso vedere che il collegio, a titolo personale, abbia scritto su carta intestata sul sito del Garante un saluto a Lina Di Domenico, nel suo ultimo giorno alla guida del Dap. Si rivendica collegialità ma poi ci sono iniziative di “voci fuori dal coro”. Tutto questo fa male al Garante.

Perché fa male al Garante?

Gli fa perdere autorevolezza e autonomia. Per non parlare di foto che sono circolate dove, accanto al volto di uno dei componenti dell’Ufficio del Garante, c’è un provvedimento di archiviazione nei confronti di un poliziotto. Io sono contento se una persona non viene condannata, non va in carcere, io odio la galera. Ma il Garante non credo possa permettersi di enfatizzare un provvedimento in quella materia, mettendoci accanto il proprio volto sorridente. Il Garante dovrebbe essere sopra le parti, né da una parte né dall’altra. Essere così prossimo alle ragioni, magari tutte fondate giuridicamente, di un provvedimento di archiviazione per una morte in carcere, a me pare fuori posto.

Aggiungo che non ho avuto alcuna risposta a richieste di chiarimenti né un “grazie” per quello che ho fatto in questi 10 anni. L’unica persona che ha mostrato vicinanza nei miei confronti è stato Mario Serio. Erano proprio venute meno le condizioni della mia permanenza, non potevo più dare nulla. Avevo sollecitato ad aprire ad un advocacy più numerosa, questo collegio con l’altra presidenza aveva aperto un elenco che doveva alimentarsi con le domande fatte da colleghi e colleghe che dimostrassero la propria competenza. Non ne ho più saputo nulla.

Rispetto al Cpr, il carcere è un hotel a 10 stelle. Ho visto luoghi dove i letti erano di pietra, l’acqua usciva marrone

Cosa si augura?

Il mio auspicio è che il Garante continui nel suo importante ruolo processuale e anche extra-processuale, che ritrovi un po’ di verve e di convinzione.

Prima ha nominato i Cpr, sembrano a volte una “grande nebulosa”. Cosa vuole dirci in proposito?

Tra il 2010 e il 2014 facevo parte di un gruppo di lavoro, l’Osservatorio carcere dell’Unione delle camere penali. Visitammo circa 60 carceri italiani e tutti i Cie (i Cpr all’epoca si chiamavano così). Ne ricordo uno in particolare, a Modena, che era attaccato al carcere. Dopo anni nell’istituto di pena, i detenuti uscivano da lì ed entravano nel Cie. Se non eri stato identificato in carcere con le tue vere generalità, difficile che ciò potesse accadere collocandoti in un Cie. Questo mi colpì, ma non è un’eccezione, spesso è la regola. Anche se nei Cpr ci vanno molto spesso persone che non hanno commesso alcun reato, regolari che hanno perso i documenti. La statistica dimostra che, passato un fisiologico periodo di tempo, o hai avuto assistenza dal Paese in cui dovresti essere rimpatriato perché confermi la tua provenienza da quel posto, o non la riceverai mai più.

Su questo tema la disciplina è cambiata mille volte, si scontano periodi infiniti di tempo in un posto dove, rispetto al Cpr, il carcere è un hotel a 10 stelle. Ho visto luoghi dove i letti erano di pietra, l’acqua usciva marrone. Nei Cpr non c’è alcun diritto perché non ci sono le regole, non si applica neanche l’ordinamento penitenziario. Si tratta di luoghi, per un verso, contraddistinti dalla più totale anomia, per altro verso dalla mancanza di risorse economiche.

Per quanto riguarda i processi che ha lasciato, cosa si augura?

A seconda dei processi, mi auguro che tengano o che vengano riformate le decisioni in primo grado. Ho lasciato (e credo che sia una pagina di storia processuale) una condanna in primo grado e in appello per fatti, secondo me, molto gravi di tortura accaduti nel carcere di San Gimignano. Quella vicenda è fotografata in una sentenza di circa 250 pagine, un vero e proprio trattato sulla tortura. E che ha affermato l’autonomia del reato di tortura quando commesso dal pubblico ufficiale in ragione dell’evidente maggior gravità, che non può essere intesa come circostanza aggravante della condotta, quando la commette un pubblico ufficiale. Io mi auguro che quella vicenda tenga in Cassazione, ovviamente.

Nel processo di Santa Maria Capua Vetere, auspico che finisca con la condanna per tortura di chi ha alzato i manganelli (i video li abbiamo visti tutti) su persone anche disabili. Mi auguro che nel processo di Reggio Emilia si corregga una lettura tutta sbagliata, che sia data in primo grado, ritenendo quei fatti orribili come abuso di autorità e non di tortura.

A proposito del reato di tortura, ieri il ministro Matteo Salvini ha detto di voler «rivedere, circoscrivere, definire il reato di tortura».

Il ministro dei Trasporti Salvini propone di metter mano al testo che punisce il reato di tortura, l’unico costituzionalmente necessario (ex articolo 13/4 della Costituzione). Quel testo, scritto male, che ha trovato un’esegesi giurisprudenziale più conforme allo spirito convenzionale, va difeso in tutti i modi perché tutela la dignità dell’uomo, che non si acquista per meriti e non si perde per demeriti. Però le norme non bastano. Occorre agire sul piano del mutamento delle culture che ancora sono presenti in settori delle forze dell’ordine e che, purtroppo, si è ancora pronti a vellicare, per passare all'”incasso” politico.

Per titoli, cosa secondo lei andrebbe fatto con urgenza nelle carceri, per migliorare una situazione al collasso?

Indulto, amnistia, eliminazione dell’ostatività, risorse per salute e lavoro, aumento delle telefonate per i detenuti, luoghi riservati all’affettività, formazione della polizia penitenziaria, vigilanza dinamica. E molto altro.

Foto di apertura di falco da Pixabay e, nell’articolo, dell’intervistato

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