Idee Scuola
Insegnante di sostegno, senza tirocinio che formazione è?
Da anni si dibatte attorno alla figura dell'insegnante di sostegno e ancora di più in questi giorni, in cui tanti docenti - che hanno tre anni di esperienza ma non il titolo - si stanno iscrivendo ai corsi di Indire e delle università. Ai percorsi però oggi manca un pezzo fondamentale: il tirocinio. Ma l’insegnante di sostegno non può essere formato da solo

Negli ultimi anni si è parlato molto della figura dell’insegnante di sostegno, spesso al centro di riflessioni, polemiche e riforme normative. Tuttavia, un aspetto decisivo della sua formazione viene sempre più spesso trascurato: il tirocinio, cioè la parte operativa, concreta, vissuta dell’apprendimento professionale. Non si diventa bravi insegnanti di sostegno leggendo solo dispense o seguendo videolezioni: si diventa tali entrando in classe, osservando, lavorando in team, sperimentando strategie e riflettendo sugli errori. Il tirocinio non è un dettaglio: senza pratica, l’insegnante di sostegno non cresce. Sembra un’ovvietà, eppure oggi il tirocinio è ridotto ad un’attività accessoria, se non addirittura aggirata attraverso percorsi semplificati.
L’esperienza del “polivalente”: quando il tirocinio era il cuore della formazione
Parlo anche per esperienza diretta. Ho frequentato il primo “corso polivalente” a Roma, nella seconda metà degli anni Ottanta. Era un momento di svolta per la scuola italiana: si chiudeva l’epoca delle scuole speciali e si apriva quella dell’inclusione. Il nostro compito era prepararci ad affrontare una realtà estremamente variegata, con casi sempre nuovi e spesso complessi.
Non si diventa bravi insegnanti di sostegno leggendo solo dispense o seguendo videolezioni: si diventa tali entrando in classe, osservando, lavorando in team, sperimentando strategie e riflettendo sugli errori
Nonostante le difficoltà, quel percorso era costruito in modo da renderci operativi. Il tirocinio era il fulcro della formazione: ogni settimana passavamo ore ed ore nelle classi, per poi ritrovarci in gruppo a discutere di ciò che avevamo osservato, vissuto, provato. Lo facevamo guidati da professionisti del settore, tra cui la dottoressa Anna La Mesa, psicoterapeuta familiare di rara competenza e sensibilità. Insieme a lei riflettevamo su dinamiche familiari, scolastiche, relazionali, imparando a costruire interventi calibrati sui singoli casi.
Fu proprio durante un tirocinio che affrontai il mio primo caso complesso, una dislessia marcata in una seconda elementare. L’esito positivo di quell’esperienza non fu merito mio, ma del confronto costante con il gruppo di lavoro: senza quel supporto, non avrei saputo interpretare correttamente il comportamento dell’alunno né trovare la giusta strategia.
Senza pratica non c’è formazione
Chi si forma oggi, invece, troppo spesso non ha questa possibilità. L’esperienza pratica è scarsa, frammentata, talvolta fittizia. I tirocini si risolvono in osservazioni sporadiche o attività non realmente integrate nel contesto scolastico. Eppure, è proprio lì che si impara a leggere la complessità: nel rapporto diretto con gli alunni, con le famiglie, con gli insegnanti curricolari, nei conflitti e nelle incertezze quotidiane.
L’inclusione non è un’idea astratta. È un processo che richiede formazione concreta, condivisione e confronto, soprattutto nelle situazioni più delicate, come quelle che coinvolgono studenti con disabilità intellettiva
L’inclusione non è un’idea astratta. È un processo che richiede formazione concreta, condivisione e confronto, soprattutto nelle situazioni più delicate, come quelle che coinvolgono studenti con disabilità intellettiva. Ogni alunno è un universo a sé, e nessun manuale può offrire soluzioni preconfezionate.
Un modello scolastico che ignora la realtà
Ancora oggi, al di là della teoria, l’insegnante di sostegno è percepito come figura separata, esterna, marginale. Nella pratica, gli si assegna la responsabilità totale dell’alunno con disabilità, esonerando di fatto il team docente dal compito dell’inclusione. La collaborazione tra docenti, che dovrebbe essere il perno del lavoro educativo, è ancora troppo debole. La conseguenza è che l’inclusione resta sulla carta, mentre nella realtà si traduce in semplificazione degli obiettivi e contenimento delle difficoltà, più che in un reale percorso di crescita.
La collaborazione tra docenti, che dovrebbe essere il perno del lavoro educativo, è ancora troppo debole. La conseguenza è che l’inclusione resta sulla carta
L’approccio individualizzato non può essere solo una dichiarazione d’intenti. Ha bisogno di tempo, di ascolto, di tentativi, di fallimenti e di aggiustamenti continui. E soprattutto richiede un contesto formativo che metta al centro le reali dinamiche cognitive, finalizzate a un apprendimento che sia realmente utile, concreto e spendibile nella futura vita quotidiana dello studente con disabilità.
Perché, più che per altri, ciò che una persona con disabilità intellettiva apprende a scuola deve servire a vivere meglio dopo la scuola: nella gestione dell’autonomia, nelle relazioni, nel lavoro, nella partecipazione alla comunità. La scuola non può limitarsi a istruire, deve contribuire a costruire futuro.
Serve una nuova visione della formazione
Voci autorevoli, come quella di Dario Ianes, lo ribadiscono da anni: senza tirocinio, senza esperienza diretta, non esiste formazione di qualità. E non basta riconoscere formalmente l’esperienza pregressa dei precari, se questa non è stata accompagnata da riflessione, supervisione e confronto professionale. Tre anni di lavoro “sul campo” non significano automaticamente tre anni di crescita, se non vengono strutturati dentro un impianto formativo consapevole e condiviso.
Non basta riconoscere formalmente l’esperienza pregressa dei precari, se questa non è stata accompagnata da riflessione, supervisione e confronto professionale. Tre anni di lavoro “sul campo” non significano automaticamente tre anni di crescita
Ciò che serve davvero è una formazione radicata nella pratica, che si costruisca nella scuola reale, giorno dopo giorno, in un dialogo continuo con colleghi, studenti, famiglie e territorio. Questo approccio non può riguardare soltanto i futuri docenti di sostegno, ma dovrebbe estendersi anche agli insegnanti curricolari, soprattutto a quelli che lavorano in classi dove sono presenti studentesse e studenti con disabilità. Anche una breve esperienza formativa all’interno di contesti di co-docenza, ad esempio, potrebbe contribuire a scardinare la logica della delega totale al docente di sostegno.
Pensare una scuola in cui le figure educative collaborano nella progettazione e nella gestione degli apprendimenti significa anche promuovere metodologie attive e inclusive come il cooperative learning, che favorisce la corresponsabilità e valorizza le differenze. Non si tratta di aggiungere nuovi obblighi, ma di iniziare a immaginare percorsi più integrati e concreti, capaci di generare cambiamenti reali nel modo di insegnare e di includere.
Meno scorciatoie, più esperienza
Ciò che ho vissuto in quegli anni mi ha insegnato che non c’è formazione senza coinvolgimento diretto, senza il piacere del confronto, senza la possibilità di “immergersi in prima persona” nel lavoro educativo quotidiano.
Formare insegnanti di sostegno senza un tirocinio vero significa in qualche modo tradire la promessa dell’inclusione. E se oggi l’inclusione è ancora vista come un peso, come un “dovere”, invece che come opportunità per chi la esercita, è anche perché non si è formata una cultura professionale condivisa, capace di leggere le disabilità non come ostacolo da aggirare, ma come un arricchimento per tutti.
L’insegnante di sostegno non può essere lasciato solo. Ma soprattutto, non può essere formato da solo
L’insegnante di sostegno non può essere lasciato solo. Ma soprattutto, non può essere formato da solo. La scuola ha bisogno di professionisti competenti, ma anche di comunità educanti che imparano facendo, sbagliando, ragionando insieme. Solo così potremo parlare davvero di inclusione: non solo un compito da svolgere, ma un’esperienza che arricchisce e lascia un segno profondo. Non solo nello studente, ma anche in chi lo accompagna nel lungo cammino della scuola.
Giuseppe Moscato, già docente di scuola primaria, dal 2005 al 2024 ha svolto attività di ricerca e di supporto alla formazione presso Indire
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